Serravalle negli anni ’30 e ’40
In occasione della pubblicazione del libro per il 150° della Banda curato dall’Associazione Libarna Arteventi, è stata raccolta questa testimonianza di Luigi (Gigi) Bagnasco, figlio di Pippo a cui è intitolato il Corpo Musicale di Serravalle Scrivia.
Serravalle anni Trenta e Quaranta del secolo scorso
Io sono uno dei tanti Serravallesi che hanno lasciato il paese in cerca di lavoro, che si è insediato altrove, che ha vissuto ormai tanto a lungo da diventare un depositario di ricordi, sono del 1924, ma che ogni volta che torno a Serravalle sono sufficienti alcuni momenti soltanto per ritrovarmi a casa.Una delle prime tappe obbligate, ma fortemente volute, è la visita al Cimitero Vecchio dove ci sono i miei genitori, i miei nonni, tanti parenti e i Martiri della Benedicta. E’ davanti a quel sacrario che mi soffermo a lungo perché non posso non pensare che tra quei ragazzi “ di leva “ ci potrei benissimo essere anch’io. Fra i tanti nomi del Sacrario ritrovo Sergio Bagnasco, Lele Mazzarello,Carrea, i bambini compagni delle elementari, ma soprattutto di gioco: Tira ca venu,biglie in buca, scundaein e poi i “giochi” stagionali. I “giochi d’Inverno”: c’era una chiesa di Frati Cappuccini, vicino alla quale c’era la scuola, e, essendo Serravalle disposta su vari rilievi, la strada che da lì portava sulla via maestra, che allora si chiamava via Umbero I e oggi Berthoud, era una ripidissima erta con rettilinei e curve di raccordo. Il ghiaccio che vi si formava era di qualità superiore e per noi ragazzini una pista formidabile per discese spericolate che facevamo semplicemente usando le suole degli scarponi chiodati – i brucheini – come oggi i nostri pronipoti farebbero con gli snowboard.
Il traguardo in fondo alla “pista” era il Monumento ai Caduti della piazza delle Aie che stava al di là della via maestra. Oggi il traffico sulla via è tale che sarebbe impossibile immaginarsi dei ragazzini tanto pazzi da sfidare le auto. E questo la dice lunga sui cambiamenti che Serravalle ha subito. I “giochi d’Estate”: la piazza della Chiesa dei Bianchi era il punto di partenza del nostro “Giro d’Italia “ che facevamo con molta serietà rispettando regole e tappe e usando i cerchioni di vecchie biciclette fatti filare con colpi di asticciole lungo le vie prescelte per il Giro. Dai Bianchi lungo via Tripoli e poi Porta Genova per ritornare sulla via maestra e raggiungere la piazza dei Bianchi attraverso via Romana. Io sono nato appunto in via Romana dove i miei genitori avevano una “Farinata” . Quelle vie e quei vicoli mi erano così famigliari che anche le immagini di questi luoghi sono tanto vivi nella mia memoria da farmi rivedere con nitidezza certi particolari, certe sbrecciature dei muri, certi ostacoli da far superare alle nostre “bici”, assieme ai volti dei miei compagni proprio come erano allora. Un campione di quel “ciclismo “ era Mario Molinari, che abitava nella stessa casa dove abitavo io ma al piano inferiore. Mario è il padre dell’attuale Sindaco. Un altro momento di gioco indimenticabile è legato alla costruzione della “Camionabile” conclusa e inaugurata nel 1935. Dove oggi c’è il grande svincolo, che regola il flusso degli automezzi dalla stazione dell’autostrada verso le varie direzioni, c’era un enorme avvallamento, un vero e proprio “buco” che doveva essere colmato per creare la stazione di accesso. Lì ai suoi margini noi ragazzini stavamo ore a vedere gli enormi camion carichi di detriti terrosi da riversare all’interno del “buco”.
Sempre legato a quel 1935 c’è il ricordo dell’inaugurazione della attuale autostrada che allora si chiamava Camionale o Camionabile alla presenza del Re, Vittorio Emanuele III, e la schiera di Balilla in pompa magna; non ricordo se ero emozionato o semplicemente seccato, ma certamente ero io il Balilla prescelto per consegnare al Re il paio di forbici per il taglio del nastro. Paradossale perché i fratelli Bagnasco, i miei zii Gigi e Carletto, mio padre poiché aveva sposato in seconde nozze Rita, la vedova di suo fratello Pippo, siccome non avevano mai voluto prendere la tessera del Fascismo, erano considerati soggetti pericolosi e quindi da tenere lontani dal Re; venivano “ molto gentilmente “ ospitati in Caserma anche se passava Mussolini in treno dalle nostre parti, magari nel raggio di cento chilometri.
I ricordi di scuola sono invece legati indissolubilmente alla Maestra Armella e al Maestro Balestreri. Proprio in questi giorni, in cui tanto si parla del maestro unico, io non posso che commuovermi al ricordo della mia insegnante dei primi tre anni di elementari. Teneva un contegno severo, sapeva ottenere disciplina, ma aveva una indole buona e generosa. Ricordo ancora le sue lezioni di aritmetica e in particolare la regola del tre semplice, illustrata in modo talmente efficace da rimanere ancora impressa nella mia memoria e da essere servita nel tempo a costruirvi sopra gradualmente concetti sempre più complicati della matematica. Il maestro Balestreri, che era un seguace della politica degli anni venti era un insegnante preparato, ma molto esigente, militaresco per non dire fascista; la sua severità aveva dei momenti assai critici quando faceva subire vere e proprie violenze fisiche ai poveracci che lo facevano irritare. Lo ricordo tenere la testa di un ragazzino sotto il getto dell’acqua gelida,e lo rivedo mollare scapaccioni per un nonnulla, atteggiamenti che oggi sarebbero intollerabili, ma che comunque ce lo fanno ricordare col soprannome di “ Scaccetta “.
Gli studi superiori li ho fatti al San Giorgio di Novi Ligure spostandomi da Serravalle con il treno delle sette- vagone di terza classe – che poi è diventato tradotta negli anni della guerra. I miei divertimenti di adolescente sono diventati sempre più ridotti e rubati al lavoro che mi era chiesto di fare per aiutare la famiglia nella gestione del “Cafè della stazione”, ma i calci al pallone sulla piazza del mercato sono tra i miei ricordi più vivi. Ricordo con grande nostalgia le bellissime processioni serravallesi, in special modo quelle del Corpus Domini: i negozi venivano adornati di frasche di rovere e dai balconi e dalle finestre delle case addobbate coi tappeti e le coperte più belle fioccavano petali di rose e di ginestre. Tutto scorreva sui ritmi di una vita semplice e normale prima degli inizi della Seconda Guerra.

Sino al 1942 la guerra è rimasta sullo sfondo delle nostre vite di giovani,ma dal 1943 in poi ci siamo trovati ad affrontare decisioni più grandi di noi e subire tutta la violenza di un regime in stato di decomposizione, ma ancora deciso a far valere con forza la sua autorità. E’ da questo momento della mia vita che sento di dover raccontare come ho vissuto la strage della Benedicta, dove hanno perso la loro giovane vita molti amici e compagni di scuola, e gli anni che ne seguirono. Avevo diciott’anni e appena terminati gli studi presso il San Giorgio di Novi Ligure e, come me, tanti miei compagni di scuola e coetanei serravallesi dovevamo affrontare la chiamata alle armi in quanto giovani di leva. Quello che per tutte le generazioni che ci avevano preceduto doveva essere un momento per far festa, per noi divenne un incubo in quanto non presentarsi al richiamo da parte della costituenda RSI – Repubblica Sociale Italiana – ci avrebbe qualificati come renitenti. Era il 1943 e il Fascismo era caduto a luglio. Nessuno di noi era disposto ad aderire al nuovo Regime appena rinato così, a parte qualche eccezione, tutti ci trovammo concordi a costituire gruppi di “renitenti “alla leva allo scopo di formare, sotto la guida di ufficiali disertori dall’8 settembre, brigate di rivolta al regime. Dopo diverse riunioni clandestine ( io partecipavo al gruppo di Novi ) venne stabilito il giorno della partenza verso la località prescelta poi divenuta tristemente famosa: la BENEDICTA. Proprio la mattina del giorno convenuto, assai presto, mi accingevo a raggiungere il mio gruppo, ma sulla soglia di casa trovai mio padre Carletto fermamente deciso a non lasciarmi passare perché riteneva l’impresa assolutamente suicida. A nulla valsero le mie pur decise insistenze. Carletto e i miei si erano ben informati e fatto un sopralluogo alla Benedicta appurando l’assoluta inadeguatezza dell’iniziativa. Armamenti ridotti e obsoleti, ripari cosiddetti caserme quasi inesistenti, capi impreparati ad affrontare responsabilità così grandi: di fronte a tali informazioni dettate non solo dall’affetto ma dal buon senso e realismo, sono rimasto persuaso ed ho anche cercato di dissuadere alcuni miei compagni, purtroppo senza riuscirvi. E’ tragicamente nota la fine che questi poveri ragazzi hanno fatto per mano fascista, e si dice anche che siano stati traditi da alcuni loschi figuri spie delle Brigate Nere a cui segnalarono il luogo e la posizione rendendo facile la cattura e il massacro. Tutto è avvenuto dopo poco tempo dall’arruolamento. Ben deciso a non presentarmi alla chiamata di leva, mi sono rifugiato presso mia nonna materna, Teresa Pasquale, alla Cascina Gatorba dove già mio zio Giovanni, fortunosamente sfuggito allo sfacelo della Campagna di Russia e disertore dall’8 settembre, aveva scavato una buca a misura d’uomo sotto il pavimento della cucina. Lì restai purtroppo per poco tempo perché dovetti subire un ricatto ignobile: i Carabinieri fecero irruzione nel negozio di drogheria dove mia Madre e mio padre lavoravano, perlustrarono ogni angolo e, non trovandomi, prelevarono la mamma e la rinchiusero in caserma. O io o lei.Non potevo certo tollerare una simile ritorsione e mi precipitai a casa dove due carabinieri mi arrestarono e mi fecero attraversare il paese in mezzo a loro come un delinquente comune. Mamma fu liberata,ma io dovetti raggiungere il mio reggimento nella Caserma di Piacenza, da dove sono scappato dopo pochi giorni e ho raggiunto un altro imboscato di famiglia: mio cugino Angelo Piacentino rifugiato in località Avi, frazione del comune di Pagliaro oltre Rocchetta Ligure, condividendo un asilo precario assieme ad altri due ufficiali scappati dall’esercito in sfacelo l’8 settembre. E’ stata una vita dura e difficile in luoghi remoti e lontani dalle nostre famiglie, nel continuo timore di rastrellamenti fascisti e tedeschi, sempre all’erta e pronti a rifugiarci in qualche anfratto. Nel 1944, l’editto Graziani condannava a morte i renitenti e i disertori, e mia mamma fu nuovamente prelevata col solito ricatto. Costretto a presentarmi, venni inviato quale renitente in una caserma di Padova, località Chiesa Nuova, considerata tappa intermedia, avendo come meta finale un campo di concentramento in Germania. Venni a conoscenza di quanto stava per accadere poiché ero stato assegnato alla “fureria “ come attendente del capitano. Di fronte a tale pericolo, con un commilitone di Novi, decidemmo di scappare utilizzando un falso permesso di “uscita “. Dopo avventurose peripezie, parte in treno e parte a piedi per non essere catturati, io raggiunsi il rifugio di Avi mentre il mio sfortunato compagno fu preso a Novi, inviato in un campo di concentramento da cui non fece più ritorno. Rimasi in Avi fino al 25 aprile 1944, giorno in cui anche Serravalle fu liberata. Finalmente libero, a Serravalle ritrovai i pochi compagni di leva rimasti: festeggiando di essere vivi ci siamo resi conto di aver cancellato gli anni più spensierati della vita. Dopo aver ripreso e concluso gli studi un altro evento tragico e doloroso era in agguato sulla strada della mia vita: la morte assolutamente imprevedibile e assurda di mia Madre che aveva solo 44 anni. Oggi si definirebbe un caso di malasanità. Lasciai il paese per costruirmi un futuro che, sino ad oggi, mi ha in parte ripagato delle sofferenze patite.
Di Serravalle nel periodo postbellico non potrei dire altro poiché, dagli anni cinquanta in poi, dopo essermi sposato, ho trascorso molti anni all’estero (Estremo Oriente e vari paesi Europei). Dal 1970 sono cittadino milanese, ma ogni Festa di Santa Cecilia mi vede partecipe commosso alle esibizioni della Banda Musicale che porta il nome di Pippo Bagnasco.
Milano, novembre 2008