Oltregiogo - Isola del CantoneRacconti, testimonianze, favole, poesie

Un’ombra più bianca del pallido

Non si andava nel Cantone attraverso sottopassi e scale: era una passeggiata sul ponte e le sigarette si chiamavano Nazionali Semplici, tutt’al più Nazionali Esportazione. Anche le strade provinciali erano diverse perché l’asfalto era in poche e le nostre biciclette soffrivano al pari di noi. D’abitudine si andava al Lago di Savio nel primo pomeriggio, rigorosamente sulla diga da dove ci si tuffava e l’abbronzatura era un di più per la semplice ragione che non era ancora di moda.
Dopo cena si ripartiva da casa e la salita fino a Vobbietta era più dura a causa del prolungato bagno pomeridiano e per la dinamo che aumentava lo sforzo. Ma si giungeva comunque e attraverso la vecchia mulattiera che passava in fregio al Vobbia, si arrivava al “Maglietto”.

Lago Savio, o di Vobbietta


La luce filtrava dalle imposte sconnesse e dalla porta con troppi spazi, ma era la musica che ci faceva capire dove eravamo. Allora le canzoni erano un veicolo, non solo di note e di sentimenti, ma anche di velleità giovanili, di aspirazioni sociali e di tutti quegli elementi morali che un disordinato sessantotto aveva introdotto nei nostri cuori.
Tutto questo, comunque, era una scusa perché a noi interessava (ma non ne eravamo coscienti) smantellare l’etica di allora che si identificava con quella dei conformisti cattolici di provincia. Uno dei mezzi più efficaci fu proprio la musica, che accanto a Blowin’ the wind o A day in the life dei Beatles, annoverava i movimenti pelvici di Elvis Presley o Je t’aime … moi non plus, che uscì nel 1969. La bomba però furono i balli lenti: abbandonati valzer e mazurche, buttati alle ortiche Claudio Villa e Quartetto Cetra, gli incontri serali tra
diciottenni dovevano avvenire, quasi obbligatoriamente, in un luogo dove ci fosse un giradischi e una luce fioca. Nacquero così a Isola e dintorni la “Conceria”, il “33 rosso” e il “Maglietto”.

La conceria a Isola del Cantone

Quest’ultimo era il ritrovo di una ventina di ragazzi e ragazze (molte volte con l’infradito) che seduti sugli attrezzi dell’officina si domandavano reciprocamente «Balli?» I dischi erano: Whiter shade of pale dei Procol Harum, Sitting on the dock of the bay di Otis Redding, When a man loves a woman e tante altre, tutte lente. Ma era con la prima che numerose coppie si innamoravano e vivevano la loro stagione dei fiori, perché il motivo era un artificio che a volte, ho letto da qualche parte, senza alcun motivo apparente si innescava e rimaneva lì, immutato nel tempo: tutto dovuto al testo ermetico di Keith Reid, a una melodia struggente vagamente ispirata all’Aria sulla quarta corda dalla Suite n. 3 in sol maggiore di Johann Sebastian Bach, al mitico organo Hammond che plasmava di sensazioni l’ascoltatore e infine alla voce pastosa, calda e graffiante di Gary Brooker.
Ogni sera veniva suonata più volte e mentre con le altre canzoni il mormorio ai lati dei ballerini non smetteva quasi mai, con i Procol Harum il silenzio era totale, ci si stringeva sempre di più fino a non respirare e ancora oggi un brivido corre lungo la schiena a ricercare quei momenti.

proprietà stefano denegri

Poi arrivava settembre e insieme alle luci del “Maglietto” si spegnevano gli entusiasmi, la bicicletta finiva in cantina e anche le Hit Parade erano di un tono minore.
Scuola, maledetta scuola: solo le canzoni dell’estate restavano con noi nel tratto dal bar Caccian a quello di Poldo; ma ci saremmo rivisti fra quasi un anno e un’altra canzone …

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