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E Bufè da stasion

(di Lorenzo Bisio)

Il Bar della Stazione ferroviaria di Serravalle Scrivia, tecnicamente conosciuto dai serravallesi doc come il Buffet della Stazione, è un ricordo indelebile della mia infanzia.

Rilevato dalle tre sorelle Bertone, mia madre Lucia,  Maria e Paola,   nemmeno maggiorenni, negli anni della seconda guerra mondiale, passò successivamente in gestione, dopo un fallito apprendistato come ciabattino presso il negozio di calzature di “Pasqualein” Gualco, al rampollo maschio della famiglia, il fratello  Agostino, da tutti conosciuto come “Curasa”, cioè Corazza.

Ciò perché, a scapito di un fisico tutt’altro che robusto, già in età giovanile non c’era impresa impossibile per lui.

Famoso l’aneddoto secondo cui da ragazzino portò il suo cagnolino a spasso sul greto del torrente Scrivia, ma si spinse fin quasi ad Arquata, ragion per cui al ritorno, essendo la povera bestiola completamente priva di forze, dovette prenderla in braccio.

Essendo profondamente cattolico mio  zio era impegnato nel sociale.

Ritenendo che fosse giusto riportare all’ovile le pecorelle che si erano smarrite, come nella parabola di Gesù raccontata nei Vangeli da Luca, Matteo e Tommaso, alla chiusura del bar, verso l’una di notte, insieme al fidato amico “Perein”, il fratello della fruttivendola “Pereina”, coniugata Marescotti, anziché andare a dormire, si recava al night club Omnibus di Cassano Spinola.

Dove fra un flute e l’altro di champagne cercavano insieme di riportare sulla retta via delle graziose fanciulle dell’Est Europa che avevano avuto un attimo di sbandamento, abbandonandosi a Bacco, tabacco e Venere.

Questo non solo comportava che alla mattina alle 6.00, quando c’erano le colazioni da preparare, per il via vai continuo di clienti che scendevano dal treno per prendere servizio alla Fidass o alla Gambarotta (quella dell’amaro e della grappa Libarna) il bar era ancora chiuso, ma lentamente minava anche la sua salute, già precaria di per sé.

Tanto che per una grave malattia ai polmoni dovette essere ricoverato in ospedale e poi spedito “in vacanza forzata” al sanatorio di Pracatinat (dedicato a Edoardo Agnelli e Tina Nasi), sopra Fenestrelle, comune delle valli occitane in provincia di Torino.

Per garantire in un qualche modo l’apertura del bar rientrarono in pista “obtorto collo” mia mamma e mia zia Maria, perché la terza sorella Paola era già fin troppo impegnata nel negozio di elettrodomestici sito a Gavi in via Mameli, aperto con il marito Riccardo Barbieri, classe 1922, centravanti di straripante potenza del Cagliari e dell’Avellino negli  anni del dopo guerra.

A me che avevo sette anni non parve vero questo cambiamento epocale di vita.

Da rimanere chiuso in casa con mia madre e avere a che fare quotidianamente con i suoi sistemi educativi completamente agli antipodi del metodo Montessori, un mix di “bragi, lurdouni e sgiafutouni”, a trascorrere i pomeriggi in quell’ affascinante luogo di perdizione che era ai miei occhi  il bar, fu un’esperienza esaltante.

A quei tempi infatti il Buffet della Stazione era paragonabile ad un salotto letterario, nulla da invidiare a quelli radical chic della Milano da bere degli anni 80, in cui un’umanità variopinta e variegata, che attraversava svariate generazioni, si radunava giornalmente, spartendosi le tre fasce orarie (mattino, pomeriggio, sera fino a notte inoltrata) discutendo di politica, economia, sport e belle donne.  

I clienti fissi già dal primo mattino erano Casanova (ferroviere in pensione), “Pippo l’oca” Ballestrero, Angelo “l’ossu” Colombo, parente di “Angelina” della  famosa cartoleria dove, per anni, intere generazioni di studenti hanno acquistato libri e materiale didattico, il Rein Celotto, amico e compagno in gioventù di tante scorribande con mio padre, nonchè fratello della Ida, che con il coniuge Punta aveva in via Berthoud il più bel negozio di abbigliamento di tutto il paese, ed infine Mario “Caneletu” Figini, sempre elegantissimo e profumatissimo, zio di uno dei protagonisti della movida serravallese di allora, il mitico Andreino Figini, pianista, rappresentante di dolciumi, esperto di aperitivi e  vini, ma soprattutto maestro della “manfrina” .

Con questo termine, che deriva da una danza popolare piemontese, letteralmente “monferrina”, si intendeva in dialetto serravallese sollevare polveroni dal nulla e creare ad arte situazioni, discussioni e scambi di battute che andavano avanti  per ore ed ore, senza approdare mai a nulla di concreto.

 E quando andavano scemando ci voleva sempre chi come mio padre  Giorgetti e Andreino ”un  zuntova in tocu”,  per farle ripartire e riprendere vigore.

Al rientro dalla scuola non vedevo l’ ora di pranzare nel salone   riservato ai clienti del ristorante.

La cucina casalinga di mamma e zia aveva come cavalli di battaglia “ i tajareini ‘n cu u tucu id corne o fonsi, gnochi  ae  pestu”, tutto  rigorosamente impastato  a mano, cima alla genovese, vitello tonnato, “galeina bouia  ‘n cu a solsa verde”, ossibuchi col purè, “arostu id vitela”,  frutta e verdura.

La clientela, a parte chi era di passaggio, come i mediatori di bestiame, che affollavano il paese in occasione delle principali fiere, su tutte quella di San Martino,  era composta dai  soliti aficionados.

 Il ristretto cerchio magico di fedelissimi erano :  un certo Gigetto di Genova, impiegato alla Fidass, un enologo che lavorava alla Gambarotta e Savini impiegato di banca, originario dell’oltrepo  pavese,  che aveva affittato una stanza in paese  e si fermava tutta la settimana, rientrando solo per il week end.  

Fin quando, qualche anno più tardi, colpito al cuore da una freccia di Cupido,  non trovò l’anima gemella nella signora Sandra Priora, della numerosa famiglia Priora, diventando serravallese a tutti gli effetti e colonna portante della Pro Loco cittadina.

Ecco,  era lui il mio mito !

Mi sedevo al suo fianco in fondo alla sala a destra e mentre pranzavamo insieme ascoltavamo tutti i giorni alla radio “Hit Parade” ,  trasmissione presentata da Lelio Luttazzi: fra tutti i motivi in classifica, ricordo che entrambi  andavamo  pazzi per  “La rivoluzione” di Gianni Pettenati”, “A chi”  di Fausto Leali e “Luglio” di Riccardo Del Turco.

A tal proposito, all’ora di pranzo, verso l’una, entravano al bar, i ragazzi di Stazzano  e Vargo, che frequentavano le scuole medie a Serravalle e attendevano la corriera per il rientro a casa.

Degli scavezzacolli patentati, su tutti un certo “Chicchi” e un tal Pomodoro di cognome.

Ricordo che un giorno, mentre stavamo pranzando, fummo attirati dalle urla provenienti dal bar.

Mi affacciai dalla porta e vidi Francuzzo  Migliazza (lui e il fratello Ciansu erano  due ragazzi con ritardi mentali,  che erano diventati le mascottes di tutto il bar e di tutto il paese) che correva all’impazzata avanti e indietro.

Ci vollero tre persone per fermarlo e capire che quei due monelli avevano acceso  una rotellina di carnevale, di quelle che friggono, e gliela avevano attaccata al collo della dolce  vita.

Peccato che a contatto con la lana,  il maglione avesse preso fuoco procurandogli un’ustione di secondo grado sulla schiena,  curata prontamente da mia mamma con il Foille  che teneva in cucina per le bruciature.  

Fatti i compiti in cucina, mentre l’amata N’Giuleina, coadiuvata, in occasione delle giornate di maggiore affluenza, da Rita, la moglie di Riga “u seingru”, lavava e asciugava  i piatti,  tutti a mano perché la lavastoviglie ancora non c’era, mi ripresentavo al bar nel primo pomeriggio, carico  a pallettoni, per ascoltare nuovi racconti ed aneddoti da quelli che erano ormai diventati i miei maestri di vita.   

“Au dopmesdi” cominciavano anche i gironi a carte (tecnicamente una sfida strutturata su 4 partite, a tressette, scopa 15,  tafferuglio/cirula,  biscola) in cui chi guardava poteva anche “traversare”,  scommettendo sulla coppia vincente.

Memorabile il poliedrico  Romolo Benasso che  sentendosi rispondere affermativamente alla domanda : “a posu traversò ?” scavalcò direttamente con le gambe il tavolo da gioco, facendo cadere le carte e prendendosi un bel “Romulu va a cagò!” da tutti i presenti.

C’erano delle giornate in cui erano attivi anche 4 tavoli da gioco, ed io, zitto zitto, scrutavo da dietro le mosse di ciascun giocatore, sperando un giorno di emulare le loro gesta, ma ahimè, il buon Giorgetti mi aveva trasmesso solo la sua memoria e non il suo DNA per le carte!

Nel periodo estivo entrava in funzione anche il dehors, in dialetto “berseau”,  alla francese, una pergola riparata dal sole, con tavolini, dondolo, jukebox e banco frigo per i gelati, marca “Chiavacci”.

In fondo alla “topia”, lontani da occhi indiscreti, al confine con l’abitazione di Casonato, mitico trombettista della “Bufa e Scrola” e di sua moglie Dalma, che, sfrecciando sul suo  motorino per il paese, ha sforacchiato le chiappe   di mezza Serravalle, facendo iniezioni a grandi e piccoli, per qualsiasi tipo di malattia,   si sistemava un’arzilla combriccola di vecchietti capeggiati da Angelo “ u Sigulein” e “Savina” (nessuna parentela col Savini bancario) papà della signora Anna, che possedeva una merceria in viale Martiri della  Benedicta,  stesso lato, ma un pò più in giù, rispetto alla torrefazione di Caffè Piacentino.  

Si portavano da casa un’ arbanella di acciughe sotto sale e, nonostante la temperatura torrida,  dopo un’approssimativa scrollatina, le ingoiavano ad un ad una  con avidità.

Intervallavano le acciughe con fette di salame spesse come due dita della mano, accompagnando il tutto con abbondanti bottiglie di barbera.

L’acqua era bandita, perché come diceva il “Sigulein” : “a fa pisò e a scèisa u sangue”.

Prima di sera il bar raggiungeva il sold out perché tutti, e dico tutti, usciti da lavorare, facevano una capatina in quel formidabile luogo di aggregazione, per “savai i ceti” e “cuntò due musse”.

Ed io, rimbalzato da una seggiola all’altra, ero il loro pupillo, per cui facevano a gara per insegnarmi ogni tipo di parolaccia e volgarità.

Indimenticabile quando mi dissero : “va da to muma’ e dighe ca voiu in panein ‘n cu a cila “

Inutile che ne traduca il significato, non l’ho mai dimenticato,  come il “lurdon” sulla testa che mi tirò lei!

I big del preserale erano  il “Cinein” Pozzi, alias “Cinapola”, parente delle sorelle Saccomanni, che abitavano nella casa a fianco alla mia, al di là del salitone “del Mortirolo”,  e il mitico sellaio “Pagnoni”.

Il primo era un idraulico, che uscito dal lavoro si vestiva  e si profumava di tutto punto prima di venire al Bar.

Era un nostalgico del ventennio fascista,  con il suo anello in oro farlocco con la scritta DUX in brillantini e con svariati pins sul risvolto della giacca che inneggiavano a Mussolini.

Non appena entrava al bar, con una scusa qualsiasi, i soliti “tiraballe”  lo chiamavano in causa per un parere politico sul PCI e i comunisti.

Era come dare fuoco a una santabarbara; subito partiva un profluvio di invettive che non lo fermavano neanche  imbavagliandolo, e tutti giù a ridere a crepapelle.

Tutti tranne Lago Agostino, “u Logu”, comunista integralista tutto d’un pezzo, che ribatteva colpo su colpo.

Terminato questo dibattito, che  si poteva paragonare, a parte le battute e gli insulti in dialetto, alla famosa “Tribuna politica” di Ugo Zatterin, iniziava il varietà, con l’entrata in scena di “Pagnoni”, “sellaio da strapazzo per tutte le diramazioni”, come lui stesso amava definirsi.

Era originario di Brisighella,  borgo medievale dell’appennino tosco-emiliano, fra  Firenze e Ravenna; il paese delle fruste,  famoso per la “Frusta d’oro”, il festival dove i vari s’ciucaren  (schioccatori) si sfidano ancora oggi in esibizioni e virtuosismi.

 Lavorava saltuariamente presso gli allevatori della zona, dormendo spesso nelle stalle.

Di conseguenza emanava certi effluvi  degni del miglior Chanel nr 5 !

Al bar si vantava delle sue conquiste amorose e, opportunamente stuzzicato e stimolato, si lasciava andare ai particolari più intimi.

Una cosa so per certo; mia madre,  che spesso gli offriva un pasto caldo, e verso cui lui nutriva un timore  riverenziale,  gli ricordava periodicamente di curare maggiormente  la propria igiene personale, pena l’espulsione dal bar.

Nello specifico,  mentre gli agitava davanti agli occhi un  parallelepipedo di sapone di Marsiglia, la sentii io con le mie orecchie gridargli : “Pagnon ciapa u savon e va a Nove ‘n ti cesi publici a levote a pu grosa !”.

E lui : “Si padrona”.

All’ora degli aperitivi non mancava mai “E Caregon” un autotrasportatore, single impenitente, fratello delle sorelle Carrega , sarte di via Cappellezza, specializzate in “camise id flanela e broghe id basein” (fustagno), che hanno vestito intere generazioni di serravallesi, specie quelli dediti ai lavori più umili nei campi e nelle tenute agricole.

A loro facevano da contraltare il sarto Pavoli, per la classe operaia, il sarto Icardi, per la media borghesia e il sarto Lovece, titolare di un atelier all’interno della sua abitazione, che cuciva esclusivamente per le classi più abbienti e i nobili del paese.

Con il suo inseparabile cappellino da pescatore, con cernierina laterale per le Nazionali senza filtro, il foulard sempre al collo, “Caregon” ordinava, in compagnia dei suoi amici, almeno un poker di “lerciumi”, un aperitivo antesignano dello Spritz, composto da vino bianco macchiato col Campari, ritirandosi poi per cena, completamente sobrio, come se nulla fosse.

A quel punto io ero costretto a rincasare; allora si andava tassativamente a dormire subito dopo “Carosello”.

Ma la vita al bar non cessava, anzi……

Dopo le 21.00 si ripopolava improvvisamente, perché tanti, non avendo ancora la televisione in casa, venivano a vederla lì.

Era una Brionvega  del peso di 20 chili, con un tubo catodico lungo come il ponte sullo Scrivia fra Serravalle e Stazzano.

 A rompere la monotonia nel salone  ci pensava quel pazzo scatenato di Luigi “Burasein”  Borasi,  fino a poco tempo fa titolare  di una rivendita di materiale per giardini ed enologia, prima della galleria della Crenna, amico di mio zio “Curasa”, che ne inventava una tutte le sere.

I

In particolare si ricordano tutti di una sera in cui lanciò un cabaret in metallo ai piedi di un cliente che si era appisolato sulla seggiola guardando la TV, rischiando seriamente l’incolumità fisica.

Così come quella volta in cui,  armato di una frusta da cavalli, convinse un cliente seduto  a tenere il giornale aperto come se lo stesse leggendo e, con secchi colpi in verticale,  lo ridusse a striscioline senza neppure sfiorarlo, in un boato di applausi di tutti gli avventori presenti.  

Contemporaneamente nella sala ristorante si radunavano alla spicciolata, senza farsi troppo notare,  i vari biscazzieri di professione, tutti amici di mio padre, che iniziavano a giocare a poker o a “gofo” e non smettevano fino a notte inoltrata.

 Mia madre mi raccontava sempre che una volta, alle tre di notte, fu costretta ad un gesto estremo per farli sloggiare.

Siccome ordinavano ininterrottamente da bere, per potere  continuare a giocare, lei, con fare deciso, cogliendo tutti di sorpresa,  sottrasse loro una carta dal mazzo.

Suscitando le ire del mitico Galardini Joele, vulcanico toscanaccio di Castiglione della Pescaia, sfegatato tifoso dell’Inter del Mago Herrera, giunto a Serravalle come agente della Polizia Stradale e poi stabilitosi  in paese definitivamente, aprendo un negozio di gommista   e convolando a nozze con la  “Nella”.

Da questa unione  nacquero tre future glorie del calcio provinciale,  Maurizio “Mandibola”, bomber di razza, e i gemelli Marco (centrocampista di classe) e Massimo (mediano tutto grinta e sostanza).

Famosa la sua frase : “ Ma chi ce l’ha mandata questa Giorgetta qua !”

E altrettanto risoluta la risposta di mamma: “ Io ci sono sempre stata,  è lei che è venuto qui dalla  Toscana!”  

Verso mezzanotte era solito fare una puntatina il mitico “Tapein”, talmente sbronzo da non reggersi in piedi, che ordinava un bianchino e poi lo rovesciava nel lavandino del bancone senza nemmeno berlo.

Mia madre si incazzava di brutto e , caricandolo di miserie, lo spingeva a forza verso l’uscio per farlo uscire.

In alternativa a “Tapein” si presentava Bocchio “Mastrolindo”, di professione  macellaio,  soprannome derivatogli dal fatto che, in preda ai  fumi dell’alcol, anche in pieno inverno, si denudava il petto, strappandosi  di dosso la camicia, in una versione paesana e campagnola del mitico Hulk Hogan in Wrestlemania.

Peccato che, a differenza del campione americano, avesse un fisico alla Mahatma Gandhi.

Che tempi indimenticabili…….. e che nostalgia  per questi personaggi che hanno segnato un’epoca.

Ritiratasi mia madre,  verso la metà degli anni 70 il  Buffet della Stazione fu rilevato da un savonese di Toirano, quindi passò ai  Monteleone, ed ora, per effetto della globalizzazione,  è gestito da una famiglia  dei cinesi.

 Ma nel mio cuore di ragazzino resterà sempre “e Bufè da stasion ! “