EnciclopediaOltregiogo - Isola del CantoneRacconti, testimonianze, favole, poesie

Senti, avrei bisogno di parlarti ancora (seconda parte)

Mio nonno Cirra era fabbro ferraio, così come tutti i suoi fratelli. Quando morì ero bambino, ma lo ricordo robusto, direi tozzo, con i baffi mezzi bianchi e mezzi castani. Sono cresciuto con i racconti che mia madre faceva di lui. Poi quando iniziai a intervistare gli anziani del paese conobbi ulteriori aneddoti e ricordi. Pare che al Museo dell’Auto, al Lingotto di Torino, ci sia una balestra di auto che egli fece per un prototipo della Fiat scassatosi proprio a Isola. Essendo Socialista, negli anni ’20 sentiva il fiato dei fascisti isolesi su di sé. Una sera uscì da un’osteria e si avviò verso il ponte sulla Scrivia. Dall’altra parte c’erano due in camicia nera che lo aspettavano, forse con dei manganelli, forse no. Chi me lo ha raccontato asserisce che U Cirra si tolse il mantello, lo appoggiò sulla spalletta del ponte e gridò (in dialetto, ovviamente): «Venite avanti insieme, così faccio più presto ad andare a casa!».

Un altro mi ha ricordato che con il fratello maggiore a volte, verso le 11 di mattina, si sedevano al tavolino del bar Caccian e ordinavano mezzo chilo di gorgonzola, un carnera (grossa micca di pane) e un bottiglione di vino. Colesterolo? Penso che evaporasse con il calore della fucina.

Via Roma

Le suppliche accumulate nei secoli dal fervore della pietà popolare, hanno dato luogo alla più antica serie mariana codificata, le Litanie Lauretane, risalenti al 1587 e così dette perché scaturite nel contesto del Santuario di Loreto. Il loro significato esoterico (Rosa mystica, Turris davidica, Stella matutina, ecc.), è suggestivo e si sposa con l’atmosfera che vivevo da ragazzo ai rosari serali. In un latino cantilenante e per niente conforme all’originale, questo mormorio, ripetuto da secoli, sembrava riempire lo spazio della chiesa permeandone i presenti, amplificando il profumo sopito d’incenso, smorzando ancor di più la luce delle poche lampadine. I fedeli rispondevano al parroco senza enfasi, forse con poca spiritualità, certamente senza sapere il significato recondito di quanto dicevano. Ma il risultato era un cenobio di fedeli che oggi manca. Un prodigio dovuto al carattere teatrale (detto senza ironia) delle funzioni religiose di una volta: persone e paramenti, luce e musica, gesti e parole, che facevano scaturire un’unione d’animi. La demolizione incontrollata di tutti i miti, la morale in libertà, lo scetticismo diffuso, hanno soffocato quello di cui l’Uomo ha bisogno da quando ha iniziato a sognare: credere in una Vita dopo la Morte.

Se salgo su un autobus, probabilmente, qualcuno percepirà un odore sconosciuto o sentito poche volte. Ormai casa mia è impregnata dell’odore della stalla e di conseguenza anche i miei abiti. Le mie unghie sono tozze e non riesco a togliere del tutto quanto vi finisce sotto. Dapprima la cosa mi metteva un po’ in soggezione, adesso non me ne curo più. Se esco sulla soglia osservo la terra impregnata di tutto ciò che è naturale: foglie che marciscono, mucchi di letame, limo che si sposta con la pioggia, deiezioni di cinghiali, caprioli, daini e financo lupi. Se sposto una zolla subito i lombrichi si muovono e se vado verso monte noto che il ruscello è un trituratore di tutto ciò che vi cade dentro. Il tetto delle cascine in qualche punto ha un muschio decennale che approfitta delle tegole per svilupparsi, come l’edera avviluppa l’albero. In Natura nulla è puro, perfetto, solitario: tutto e tutti convivono e si servono gli uni degli altri fino al traguardo finale. “Polvere sei e polvere ritornerai” confondendoti con pietre, rami, sorgenti e tutto ciò che oggi ti circonda e non guardi.

Un tempo c’era una ricchezza di cose e prodotti oggi scomparsi o sostituiti quasi totalmente: ricordiamo le farfanellePetasites hybridus – presenti lungo i ruscelli, le cui larghe foglie erano antinfiammatorie e si mettevano sulle ferite. Nei muri cresceva la scannigeaParietaria officinalis – un’erba leggermente urticante che, insieme alla sabbia, serviva per lavare le bottiglie. Qualcuno sosteneva fosse anche diuretica. La corteccia del castagno selvatico – u savergu, o dei vari tipi di quercia, rue e seru – forniva il tannino per l’industria conciaria. E come si può non citare il carbone di legna? Isola ne esportava carri merci a Genova dove, per la sua leggerezza, durata, resa del calore e il poco ingombro, veniva usato nei ronfò o runfò. Questo termine, che qualcuno faceva risalire fantasiosamente al ronfare del gatto di casa che inevitabilmente si acquattava vicino ai fornelli, prende invece il nome dall’americano Sir Benjamin Thompson, conte di Rumford inventore, alla fine del Settecento, del particolare focolare molto adatto per le cucine. Furono probabilmente gli emigranti d’oltreoceano ad introdurre il termine nella parlata dei genovesi del XIX secolo allargandone l’impiego a tutti i tipi di cucina in muratura. 

La Banda, 1924

Like a Rolling Stones di Bob Dylan. A mia madre piaceva Luciano Tajoli, tanto che piangeva quando lui cantava Mamma. A me sembravano canzoni melense e troppo sentimentali, insomma qualcosa che rispecchiava un periodo che non avevo conosciuto e che non mi interessava. Se poi sentivo Claudio Villa mi veniva l’orticaria, mentre con il Quartetto Cetra rischiavo la depressione. Mio zio Gianni metteva sempre “La lontananza” di Domenico Modugno che gli avevo regalato nell’edizione 45 giri. Credo di aver cominciato a sentire dei brividi con Celentano (“Ora sei rimasta sola”) e con Rita Pavone (“Cuore”). Quindi arrivarono i Beatles (“Please please me”) ma il vero shock fu, appunto, “Like a Rolling Stones” che ha riempito serate e serate d’inverno nella mia stanza, d’estate al Maglietto o in Conceria con gli amici. Bene, stamane avevo in sottofondo un po’ di musica e sul più bello delle mie letture è arrivato Bob Dylan con il suo capolavoro. Ho sentito dietro di me mia madre e mio zio Gianni sorridere e commentare tra di loro: “Proprio come noi”.

Se prima c’è stata qualche giornata di freddo quello odierno è destinato a durare. Forse non ci sarà l’estate di San Martino a causa della rivoluzione climatica ma non verrà neanche l’inverno di cento anni fa. Allora, per risparmiare legna, si vegliava nella stalla con i vicini come è ripetutamente evocato dai nostalgici dell’antica vita di campagna. Dai racconti di mia madre uscivano personaggi oggi improbabili e chi raccontava si inventava in continuazione storie di streghe e diavoli, di gatti neri e capre malefiche. C’era poi chi recitava filastrocche o accennava a canzoni imparate a militare. Stare in compagnia tutte le sere stimolava l’inventiva ma amplificava anche le gioie e i dolori: gestazione, allattamento, sacramenti e funerali, venivano vissuti collegialmente facendo apparire inevitabile, e quindi naturale, qualunque cosa, bella o brutta.

Nel nostro pensiero ci immaginiamo una serenità e solidarietà che probabilmente esistevano solo a tratti. La grandine, le malattie più stupide che falcidiavano i bambini, la sporcizia, i continui richiami in una caserma lontana, lo Stato ancor più patrigno di oggi, avvelenavano l’esistenza e ci si affidava a pratiche esoteriche per scaramanzia o necessità. Così si segnavano i vermi, si leggevano i fondi di caffè, si scoperchiava il tetto se un congiunto, tra mille sofferenze, non riusciva a morire. L’unica soddisfazione era stare vicini e combattere insieme la prossima giornata. 

Improvvisamente tra i cespugli e le spine appare un rudere, uno scheletro di pietra illuminato dal sole e circondato da una natura ormai non più regolata dall’uomo. Una volta le sue mura erano dipinte a strisce rosa e gialle. Sembra impossibile che su quell’aia giocassero bambini tra una gallina e una capra, che uomini vestiti di fustagno e con un capello bisunto governassero gli animali nella stalla. Vedo anche una donna con il grembiule che sull’uscio mi invita nella cucina rivolta a sud, con un tavolo su cui c’è la sfoglia pronta per mezzogiorno. Mi viene offerta l’acqua da un secchio con un mestolo in metallo mentre le mosche sono combattute da un nastro colloso che pende dal soffitto. Mi racconta che hanno appena ristrutturato la casa e l’intonaco è stato decorato da un parente pittore. Dopo i convenevoli sulle rispettive famiglie, saluto tutti e mi incammino passando sotto il portico in cui sembra che la strada trafigga la casa. Un lampo di luce. Le pietre in bilico mi riappaiono e le voci si allontanano. 
Vita e morte, civiltà contadina ed entropia moderna. 

La musica sacra ha un fascino ancestrale a cui non mi so sottrarre. Penso alle funzioni religiose con la cantoria a semicerchio intorno all’organo, composta da tenori, bassi, baritoni: tutti dilettanti, ma con una forza e una originalità che mi faceva incantare. Immagino, non sono un esperto, che le variazioni rispetto ai canoni fossero minime e forse non ben accettate dai sacerdoti. Quasi in contrapposizione a questa musica ufficiale, a Isola negli anni ’30 sorsero i “Canterini”, un gruppo di giovani che ebbe successo in tantissimi concorsi e festival prolungando l’attività sino al 1960 circa. Era una musica nata dal popolo e via via variata dall’ambiente in cui viveva. 

Una musica laica dedicata all’amore per una donna ma anche a episodi personali (basti pensare a Baccicin vattene a cà). Quella che più mi piace è Se n’andavimu in Vubbietta tratta da una poesia di Silvio Opisso che riproduce fedelmente gli anni in cui anch’io andavo nella bella frazione Isolese per trovar la donzelletta.

Cominciavano appena la luce lo permetteva. Non so se cantavano, se erano felici, se bestemmiavano. Un anno il grano rendeva e qualche volta no e dovevano farne 7 o 8 quintali per arrivare alla mietitura successiva. In alcuni casi portavano i fascetti, nell’aia di casa con il carro, ma molte volte erano costretti a farlo sulle spalle. Al momento della trebbiatura, almeno di questo sono sicuro, i bambini erano tutti contenti: c’era quel mostro meccanico a testa calda che faceva girare con un sacco di cinghie, due o tre macchine assieme. Ogni tanto arrivavano le donne, fazzoletto in testa e grembiule, con vino o torta di riso e la pula nell’aria sfocava il tramonto e attutiva il ruggito del motore. Poi scendeva il silenzio e gli uomini andavano nel ruscello, finalmente, a sciacquarsi: stanchi ma con il sorriso sulle labbra. L’inverno sarebbe stato meno duro. 

Un pensiero su “Senti, avrei bisogno di parlarti ancora (seconda parte)

  • Franco Cotta Ramusino

    Racconti piacevoli ed interessanti.Complimenti all’ autore!

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