EnciclopediaOltregiogo - Isola del CantoneRacconti, testimonianze, favole, poesie

Ricordi isolesi parte 1 – Passeggiate nella memoria

A spasso con mia madre -Mia madre lavorava continuamente. Solo alla domenica pomeriggio aveva un po’ di respiro così che dopo pranzo andavamo in Vobbietta da mia nonna Elena. La strada bianca era deserta e io correvo avanti e indietro come un topo liberato dalla gabbia; ogni tanto mi raccomandava di stare attento al canale della centrale idroelettrica, oppure mi prendeva per mano e mi parlava di quella volta che …

Davanti a Tuscia il silenzio era rotto dagli spari dei cacciatori del tiro al piattello e dalle loro grida fioche. Se passava qualcuno in bicicletta, si fermava a fare due parole e mi colpivano quei pantaloni con la molletta alle caviglie, quasi fossero due piccole ali. Passavo il pomeriggio nel Vobbia. Alle quattro facevo merenda e bevevamo la spuma tenuta in fresco sotto un piccolo getto d’acqua del rubinetto: ce n’erano solo due tipi, la chiara e la scura. Al ritorno, soprattutto d’inverno, fino alla fine del rettilineo, al lago di Savio, facevo lo spavaldo; poi il buio mi prendeva alla gola. Quelle curve con a sinistra la parete ripida, piena di incognite, a destra Noceto con qualche luce e una voce lontana, mi costringevano a prendere la mano di mia madre e stavo finalmente zitto. Durava fino alle Cascine Bruciate, poi la valle si allargava: Isola era sullo sfondo, il campanile illuminato, e vedevo mio padre che ci veniva incontro e mi prendeva in braccio; la paura era sconfitta, la vita era tutta davanti.

Il Bosco – Oggi molti non sanno neanche che cosa sia un bosco ceduo. Eppure, cinquant’anni fa era l’oro verde dell’Appennino: legna da ardere, da costruzione, da tannino, foglie per la lettiera della stalla, funghi, legno per gli attrezzi agricoli, carbone di legna.

Le skabie erano pulite: si poteva andare di notte da Isola ad Alpe di Buffalora al buio, come ho fatto più volte da giovane, perché il sentiero era visibile. Le mulattiere, frutto di una progettazione spontanea millenaria, avevano la giusta pendenza ed erano abbastanza larghe per il trasporto dei tronchi: la manutenzione dei proprietari dei terreni limitrofi faceva sì che non diventassero ruscelli ma delle gronde che rallentavano l’acqua verso valle. Ormai sono diventati impenetrabili labirinti vegetali e dall’alto sembrano osservare un’umanità che si riduce a vivere su strette strisce d’asfalto nere e grigie: bitume e calcestruzzo.

Bosco ceduo

Il 26 luglio è festa all’Alpe di Buffalora. Una volta era veramente un’occasione di ritrovo dopo i giorni faticosi per il taglio del fieno. Lassù il Ture (Emanuele Zuccarino) e Giovanni Balostro assicuravano un piatto caldo a pagamento. Giovanni saliva alla mattina con il carro carico di vettovaglie e cucinava pastasciutta, ravioli in brodo e altro. Dopo il pranzo, nel bosco, iniziava il ballo con l’oste di Settefontane che suonava la fisarmonica. C’erano gare di pallamano tra i ragazzi di Isola, Borlasca e Pietrabissara. Arrivava anche Lanini, col suo carretto di gelati. Alla fine della funzione pomeridiana si tornava a casa con la resta di canestrelli o di nocciole o i marunsini che vendeva la Teresa Defferé.

In estate, per fare il burro, si scendeva nella miniera di lignite dove c’era fresco. I bambini si divertivano. Si divertivano un po’ meno quando in inverno dovevano andare a scuola e, oltre la cartella, si portavano un pezzo di legno per scaldarsi. Ci mettevano mezz’ora a piedi all’andata e mezz’ora al ritorno. Ogni parto della vacca era seguito con attenzione, non solo perché era necessario imparare, ma anche perché un vitellino in più significava un paio di scarpe nuove oppure una camicia per il padre o finalmente una macchinetta per il caffè espresso. Crescendo sarebbero andati a militare, poi, se andava bene agli altiforni, al tornio, o chissà dove, pur di scappare da quella terra nemica delle comodità. Hanno imparato a ragionare sul bene e sul male con la semplicità di chi conosce l’uno e l’altro ma oggi stanno muti nello sciabordio di un oceano fatto da parole inutili.

Alpe di Buffalora il 26 luglio 1943

Rivedo l’ingresso della Camionale non ancora raddoppiata, la casa dell’ANAS color viola, l’officina di Quaglia, davanti alla Bulloneria. La località si chiama Fornace e non c’erano ancora le Case Fanfani . Alla domenica, sul tardo pomeriggio, mio padre e mia madre mi portavano a fare quel giro, lungo Via Giardino, fino ad arrivare sulla strada degli Orti. Mi sedevano sul muretto della Camionale e guardavamo con curiosità le auto, poche e lente, dalle quali qualche passeggero addirittura mi faceva ciao. Purtroppo, nei giorni festivi Quaglia non c’era, con la sua tuta blu, lo straccio per pulirsi dall’olio che gli imbrattava le mani. Non potevo così vedere quell’antro sotterraneo in cui riparava le macchine, né sentire i suoi commenti in dialetto di Serravalle, o sedermi sulla vettura a sei posti con cui ogni tanto ci portava a vedere la Sampdoria. Il sole finiva per cadere dietro l’Alpe di Buffalora e ci avviavamo verso il ponte. Mancavano ancora la stalla di Boxardu, il passaggio a livello e il gelato di Caccian, sperando di essere serviti dalla Maria, affettuosa con noi bambini tanto da non riuscire a far stare sul cono tutta la crema e cioccolato che avrebbe voluto darci. La giornata si chiudeva alla luce fioca delle lampadine: mio padre caricava la sveglia ed il suo ultimo sguardo dalla finestra era seguito dal solito auspicio sul tempo: “Speremmu che nu ciove“. E subito mi addormentavo.

Sapore di… tomata – Era una giornata simile a queste: caldo, afa, luce che abbaglia. Stavamo facendo un rilevamento geologico e da tre o quattro ore scarpinavamo intorno al Castellaccio di Montessoro maledicendo le pareti ripide, senza neanche un albero che ci facesse ombra. Finalmente scendemmo e ci dirigemmo subito all’osteria du Geniu.
«Ghei qualcosa ca fasse passà a sé? (Avete qualcosa che ci disseti?)».
«Scì, na tumata! (Sì un pomodoro!)».
Non era una burla: provate. Bella rossa, succosa, tagliata in due, con poco sale e tanto sudore; poi ci risentiamo.

Giretta

Un quarto d’ora di cammino in discreta salita. Passi prima dai campi verdissimi d’erba rigogliosa, attraversi un ruscello pigro, affronti la rampa con un rimasuglio di lastricato e prosegui nel bosco a roveri enormi e radi. Poi trovi i resti di una carbonaia, un altro piccolo rivo, una selva di acacie troppo cresciute, una piccola cava per i muretti a secco e infine la spalla del monte che il sole mattiniero riscalda. Qui ti puoi fermare un attimo a guardare il panorama. Il sottostante bosco ceduo, infatti, non è ancora cresciuto, permettendoti di apprezzare Prarolo, la Romanella, il Guasone. Casa tua è laggiù e ti sembra di vedere le galline razzolare e i gatti sulla terrazza. Lele si è fermata a brucare piccoli ciuffi sul bordo della strada, adesso però ti spinge a proseguire. Arrivi al bivio vicino al palo; sai che poi ce ne sarà un altro, un altro ancora, cos’ via come per metterti alla prova: è la parodia della vita. Questa irta parete ne ha visto di gente passare, lavorare, riposare, non si stupisce ormai di niente. Il giro è finito. Non rimpiangi altro posto: l’universo è qui.

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