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LIBARNA IN GIALLO- Il nuovo romanzo di Benito Ciarlo

Benito Ciarlo, uno dei nostri collaboratori della “prima ora”, ci ha abituato a trovare di tanto in tanto, sui siti online, qualche sua pubblicazione: racconti, ricordi di lavoro, raccolte di poesie, di favole, saggi dedicati alla sua amata Calabria.
Questa volta si cimenta con un genere nuovo: il giallo.
Il suo nuovo romanzo, Libarna in Giallo, è ambientato ovviamente a Serravalle, e in particolare a Libarna.
Si tratta di una complessa costruzione letteraria che si muove tra intreccio investigativo, mistero storico-archeologico ed esoterismo. Ambientato tra i resti dell’antica città romana di Libarna, il romanzo esplora le ombre sotto la superficie della terra e della coscienza umana: durante una campagna di scavi archeologici a Libarna, guidata dall’archeologa Silvana De Marchi, vengono ritrovati oggetti preziosi e monete anacronistiche. La scoperta attira figure misteriose e culmina nell’omicidio della dottoressa De Marchi. Il commissario Giuseppe Bassani e l’ispettore Sergio Colandrea indagano, cercando di svelare il legame tra il delitto e un frammento archeologico scomparso. Parallelamente, il Conte Euclide Lanfranchi, enigmatico studioso e gran maestro di una Loggia Gnostica, ipotizza che un “Carro Trionfale” contenente reliquie sacre sia stato nascosto a Libarna nel V secolo d.C. La sua ricerca si intreccia con il mistero del delitto, rivelando un conflitto tra chi vuole portare alla luce la verità e chi vuole proteggerne il segreto.
In attesa di presentare convenientemente il volume, ve ne offriamo, in accordo con Benito, una succosa anticipazione: i primi tre capitoli del romanzo, accompagnati da alcune immagini che ci presentano i protagonisti della storia, così come li ha immaginati l’Intelligenza artificiale.
Chi desidera leggere subito il seguito può acquistare il volume, in versione cartacea o in ebook, sullo store di Amazon, oppure richiedendolo direttamente via mail all’autore (benito.ciarlo@gmail.com).

1.     Due monete di rame

Silvana De Marchi

Il sole di maggio, in quell’anno imprecisato, forse il duemilaventiquattro, si posava tiepido sull’area archeologica di Libarna. Non sprigionava ancora il calore violento dell’estate, che spinge gli uomini a cercare l’ombra, ma una mitezza complice, quasi a voler asciugare l’umidità persistente nel sottosuolo piemontese. Quella terra, da secoli, custodiva oltre ai segreti di Libarna, anche i sogni di un’archeologia che, come la filologia, tentava di ricostruire un testo perduto da frammenti e congetture, una disciplina divinatoria al servizio della storia. Il cantiere, sorto come un’eruzione ordinata nel placido paesaggio tra Serravalle Scrivia e gli orizzonti incerti delle colline, era un brulicante alveare di attività.

Una nuova campagna di scavi, frutto di anni di pazienti interpellanze burocratiche e fondi ministeriali distillati goccia a goccia, aveva finalmente ricevuto il suo assenso. Obiettivo: riportare alla luce una sezione delle antiche terme romane. Un’impresa non da poco, considerando che Libarna, pur gloriosa nel suo passato di statio e poi municipium lungo la Via Postumia, aveva sempre preferito celare i suoi fasti sotto un velo di silenzio, come una matrona pudica che non esibisce le sue ricchezze.

Alla guida di questa impresa, un drappello di menti acute provenienti dalla vicina Università del Piemonte Orientale di Alessandria. La dottoressa Silvana De Marchi, genovese verace, di quarantacinque anni portati con la grinta ligure che non ammette mezze misure, era la responsabile degli scavi. Una figura risoluta, i capelli raccolti in una coda di cavallo che pareva voler sfidare la polvere, incarnava la tenacia necessaria per estrarre il passato dalle viscere della terra.

Sopra di lei, o forse sarebbe più corretto dire “al suo fianco”, il quasi settantenne Professor Gian Giacomo Sancristoforo, di Bosco Marengo, la cui saggezza si manifestava in un ponderato silenzio, rotto solo da commenti lapidari e di una precisione che rasentava la profezia. Mentore di molti, egli era la memoria storica del dipartimento, un Virgilio pronto a guidare i suoi discepoli nelle profondità del tempo.
Tra questi discepoli, due giovani archeologi: il dottor Elio Marchesotti e Magda Leonetti.

Elio Marchesotti e Magda Leonetti

Elio, ventiquattrenne di Serravalle Scrivia – quasi un ritorno alle origini per lui, dato che il suo borgo natale sorgeva a pochi chilometri da ciò che fu la “porta di Genova” di Libarna –, aveva da poco conseguito la laurea e ora era titolare di un dottorato di ricerca.
Magda Leonetti, ancora studentessa in stage, ma già dotata di quella curiosità acuta che è la vera molla della ricerca, lavorava gomito a gomito con Elio.
Completavano il gruppo, il Dottor Duilio Segafieno, trentenne, ricercatore universitario, e uno stuolo di sette operai.

I primi giorni, le prime settimane, furono un susseguirsi di routine: misurazioni precise, pennelli che accarezzavano la terra millenaria, cazzuole che la scalfivano con molta cura. Le strutture delle terme cominciavano a riemergere, strato dopo strato, rivelando la sofisticazione dell’ingegneria romana.   

Fu un ritrovamento inaspettato, però, a infrangere la monotonia della scoperta archeologica e a mandare in fibrillazione l’intero cantiere. In una delle aree più promettenti, tra le fondazioni di un muro perimetrale e i resti di un calidarium, vennero alla luce due oggetti di inequivocabile valore: una spilla e una fibula in oro massiccio. Manufatti di squisita fattura, testimoni di un’eleganza che sfidava i secoli, promettevano una campagna di scavi di eccezionale rilievo.

Fu ciò che venne dopo, nel meticoloso processo di setacciatura della terra rimossa, a destare il primo, autentico turbamento. Tra i detriti e i piccoli cocci, comparvero due monete in rame, di scarsa lega ma di datazione inequivocabile. Non antiche, non romane, bensì sorprendentemente recenti: effigiavano i simboli del Regno di Sardegna, monete che erano state in corso legale in Piemonte ben oltre l’epoca imperiale. Un anacronismo evidente, quasi un pugno nello stomaco per l’archeologo abituato alla stratigrafia intatta del tempo. Quelle monete, ritrovate nella stessa area dei reperti aurei, ponevano un interrogativo ineludibile: l’area era stata già esaminata da qualcuno. E quel “qualcuno” non era un archeologo romano, né un contadino medievale, ma un uomo, o più uomini, del Settecento o primo Ottocento. Un’intrusione. Una profanazione, forse.

2.     Altrove

Conte Euclide Lanfranchi

Intanto, nel silenzio studioso di una biblioteca – o forse di un archivio privato, o magari di un appartamento dove l’odore di carta antica si mescolava a quello di un caffè troppo forte –, un Conte si immergeva in volumi ponderosi. Libri sulla storia dei primi insediamenti romani nell’Oltregiogo, sulle vie del sale che solcavano quelle terre sin dalla preistoria. Mappe ingiallite venivano dispiegate con cura sul tavolo, confrontate con manoscritti dalla grafia fitta e incomprensibile ai più. La sua attenzione si soffermava con insistenza su un manoscritto in particolare: una narrazione, quasi una cronaca, che descriveva la scomparsa di un ingente quantitativo d’oro, gioielli e altri tesori. Un convoglio, che i resti di una legione stavano trasferendo da Aquileia a Genova per essere imbarcato verso Bisanzio, avrebbe subito una disgrazia – un’imboscata, un crollo, un’occultazione frettolosa? – proprio nei pressi del presidio di Libarna, e il tesoro, mai più ritrovato, era divenuto leggenda, un sussurro tra le righe polverose.

Quella non era l’unica pagina a catturare la sua ossessiva curiosità. Una lettera, datata 1796, si rivelò un ulteriore tassello di questo enigmatico mosaico. L’estensore, con calligrafia meno formale ma altrettanto criptica, comunicava ad un certo Andrea Sobrero, Abate degli Oblati Ambrosiani di Sezzadio, di aver scavato “secondo le sue indicazioni” e di aver ritrovato “molto vicino alla porta di Genova del Borgo di Serravalle” – una chiara allusione all’antica porta di Libarna e al nucleo originario di Serravalle – un manico di pugnale in avorio, un orecchino e un bracciale in oro. Il tutto, prometteva l’estensore, sarebbe stato recapitato all’Abbazia entro pochi giorni. Tre reperti, non un tesoro intero, ma indizi significativi, che testimoniavano un tentativo di recupero avvenuto più di due secoli prima. Un filo invisibile, teso tra il mistero del convoglio perduto e un’antica ricerca, cominciava a collegare i secoli. E l’anima di Libarna, forse, non aveva mai smesso di vibrare sotto la superficie.

3.     L’enigma si infittisce

Il ritrovamento delle monete sabaude gettò un’ombra di inquietudine sul cantiere. Elio, di fronte a quell’anomalia temporale, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. La stratigrafia, la sacra Bibbia dell’archeologo, era stata violata. Qualcuno, prima di loro, aveva frugato in quel luogo, non per amore della storia, ma forse per avidità.

Professor Gian Giacomo Sancristoforo

Silvana, con la sua pragmatica determinazione, cercò di minimizzare l’accaduto. Un errore, una contaminazione accidentale. Eppure, anche lei non poté fare a meno di notare la strana coincidenza: le monete, così recenti, ritrovate accanto ai preziosi manufatti romani. Un legame insensato, una dissonanza temporale che stridette come una nota stonata in un’armonia perfetta.
Il Professor Sancristoforo, di solito taciturno, si fece pensieroso. La sua mente, un archivio vivente di secoli di storia, cercava un nesso, un indizio in quella strana anomalia. Ricordò antiche cronache, leggende di tesori nascosti, di saccheggi e profanazioni. Un sussurro, una vaga eco di un passato lontano, riemerse dalla sua memoria.

Intanto, il Conte, immerso nei suoi studi, si imbatté in un’altra curiosa coincidenza. Un documento, datato 1798, descriveva il ritrovamento di alcune monete sabaude, proprio nella zona di Libarna, da parte di un gruppo di contadini. Il documento parlava anche di strani simboli incisi sulle monete, simboli che non appartenevano alla numismatica ufficiale del Regno di Sardegna.  
L’ombra del passato, così, si allungò sul cantiere di Libarna. Un mistero, sepolto da secoli, tornò a galla, sfidando la logica e la ragione. La terra, custode di segreti, sembrava voler rivelare una storia oscura, un intreccio di avidità, profanazione e antiche leggende.

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