Edizioni ChieketèOLtregiogo - Val Borbera

CABELLA LIGURE – Presentazione “Le stagioni di Chieketè” (domenica 24 agosto)

Continuano le presentazioni de  LE STAGIONI DI CHIEKETÈ, il nuovo volume della nostra associazione dedicato alla storia, all’arte, alle tradizioni, all’ambiente dell’Oltregiogo.
ll libro consta oltre 300 pagine, contiene scritti di oltre 40 autori ed è impreziosito da un ricco repertorio iconografico. È pubblicato grazie a una nuova partnership tra le Edizioni Chieketè e le edizioni Joker; lo si può trovare nelle librerie del novese e sui principali store online.
La prossima presentazione sarà a Cabella Ligure, domenica 24 agosto alle ore 21, nel Palavittoria.
Organizzano il Comune di Cabella Ligure, Chieketè e l’Associazione Musa.
Ospite d’onore della serata sarà BRUNO MORCHIO: il notissimo creatore di Bacci Pagano è infatti tra gli autori del volume con un racconto carico di mistero il cui protagonista è proprio “l’investigatore dei carruggi”: BACCI PAGANO NELL’OLTREGIOGO.
Parteciperanno alla serata anche altri autori di LE STAGIONI DI CHIEKETÈ: Arianna Destito, Giovanni Guido e Mariarosa Mosso.
Qui potete leggere l’indice del volume.
Di seguito vi presentiamo l’incipit del racconto di Bruno Morchio in attesa di incontrarci a Cabella! (Redazione Chieketè)

BACCI PAGANO NELL’OLTREGIOGO – di Bruno Morchio

Avevamo preso la Statale e ci eravamo lasciati alle spalle l’ultimo paese della Liguria. Era una di quelle limpide mattinate di ottobre in cui la luce infiamma i colori della campagna e marca netto il profilo dei monti, stagliandolo contro un cielo che sembra fatto di lapislazzuli. L’aria era fresca e pungente, ma l’autunno ancora di là da venire. Nei giorni precedenti aveva piovuto in abbondanza e sulla strada che costeggia lo Scrivia incombeva il verde spesso dei boschi abbarbicati alla montagna. Poche macchine in giro e, forse, aprendo il finestrino avrei potuto sentire il gorgogliare vivace del fiume giù nel fondovalle.

Da quando Totò Pertusiello era andato in pensione avevamo preso il giro di andar per trattorie almeno un sabato al mese. Non che fosse una novità, l’avevamo fatto per una vita, solo che ora la scampagnata non costituiva il pretesto per raccogliere informazioni o fare il punto su qualche indagine; era un lusso che concedevamo alle nostre vecchie ossa e al nostro palato diventato con gli anni sempre più selettivo ed esigente. La trattoria la decideva lui, dopo averla collaudata con sua moglie Agnese, in uno dei nei loro frequenti pellegrinaggi gastronomici tra le riviere e l’entroterra.

Questa volta mi avrebbe portato in un’osteria imbriccata tra Arquata e la val Borbera.
«Cucina dell’Oltregiogo, una delizia», aveva annunciato entusiasta al telefono, suscitando la mia perplessità.
«Oltregiogo? Che parola è?» avevo domandato.
Aveva sbuffato, come dire che non era importante, e aveva aggiunto: «I ravioli al tocco così buoni non li trovi da nessun’altra parte.»

Non era ancora mezzogiorno e nella sala occupata da una decina di tavoli apparecchiati con tovaglie a quadrettoni bianchi e rossi c’eravamo solo noi; alle pareti scurite dal tempo facevano bella mostra una varietà di paioli e padelle di rame, un vecchio basto da asino in cuoio e legno, una testa di cinghiale impagliata, corna di daino o di cervo e alcuni quadri a olio naif di paesaggi campestri che evocavano non tanto suggestioni bucoliche, quanto piuttosto la fatica del lavoro contadino. L’aria rustica dell’ambiente, d’un rustico genuino e non posticcio, faceva pensare che quel posto fosse nato così e tale fosse rimasto per un’infinità d’anni, passando indenne attraverso due guerre mondiali, la televisione, l’industrializzazione e la de-industrializzazione, il Sessantotto e la rivoluzione digitale, fino ai giorni nostri. Questo lasciava sperare, col gradevole profumo che filtrava dalla cucina, che anche il cibo portasse traccia di tanta secolare resilienza.

Ci aveva servito una donnina esile e rugosa, vestita come le contadine di un tempo, con una lunga gonna di panno nero, zoccoli e i capelli bianchissimi raccolti in una crocchia; si muoveva lenta, con la schiena curva e il passo strascicato. appesantita dal carico d’anni che le gravava sulle spalle; senza dire una parola aveva piazzato sul tavolo il cestino del pane, l’acqua e una brocca di vino della casa, non aveva neppure chiesto cosa volessimo mangiare. Il vino era una barbera ferma niente affatto male e ne abbiamo scolato subito un gotto sgranocchiando una fetta di pane. Sono rimasto incantato a contemplate il grande camino di pietra che occupava la parete di rimpetto all’entrata. Era spento e sulla cenere stava sospeso un grande pentolone di rame annerito dal fumo.
Totò Pertusiello ha notato il mio stupore e ha domandato: «Vuoi sapere perché ho scelto questo posto?»
«Non era per i ravioli al tocco?»
«Anche per quelli, ma è che qua pare che il tempo si sia fermato», ha borbottato con un sospiro.

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