Racconti, testimonianze, favole, poesie

L’architettura inaspettata

Foto in evidenza: la Cappella Altare di Varinella (Fotografia di Germana Bellotti)

Ignazio Gardella Cappella Altare, Varinella
(foto di Germana Bellotti)

Non occorre essere a Roma, per cercare le “Mirabilia Urbis”: ogni centro, per quanto piccolo e semplice, ha i suoi luoghi notevoli, le sue memorie, testimonianze artistiche o storiche. Non per niente, parliamo del tessuto culturale italiano: a volte, però, i luoghi si fanno protagonisti, anche di vicende al limite del paradosso. Vorrei raccontarvi la storia di un importante edificio di Arquata. Era già famoso negli anni ’30, ma fino a poco meno di due decenni or sono non esisteva, e pareva destinato a non esistere; viene indicato in testi internazionali di architettura, però non pochi arquatesi faticano a individuarlo, o ne ignorano addirittura la presenza; ha valenza di memoriale, eppure l’oblio lo lambisce di continuo. Un bizzarro gioco con tanto di ucronia? No: andiamo con ordine.

Gardella è un nome che simboleggia il gusto e il design del ‘900, la sobria eleganza del moderno degli studi di architettura italiani, le scelte innovative nel segno e nei materiali. La famiglia Gardella, ingegneri e architetti, lega, lungo il corso del ventesimo secolo, a doppio filo la propria cifra a Milano, senza dimenticare le esperienze estremamente significative che ancora incontriamo ad Alessandria (Ignazio Gardella è imparentato con la famiglia Borsalino, nota di redazione).

Molto prima, tuttavia, i Gardella furono una famiglia di origine genovesee connessa in ogni modo con Arquata: lunghi periodi in una solenne casa memore dei legami monastici della frazione Varinella, impegno filantropico e politico, affetti. E progetti, naturalmente.

Ignazio Gardella “senior”, architetto, of course, fu sindaco di Arquata nella prima metà dell’ottocento: suo figlio Iacopo progetterà alla fine dello stesso secolo il primo ponte per collegare il capoluogo con l’amata Varinella e la Valle Spinti, una struttura di legno e metallo per cui avrebbe desiderato una consulenza di Gustave Eiffel.

Alla vigilia del primo conflitto mondiale, siamo già alla terza generazione di Gardella a disegnare Arquata: ecco Arnaldo (1873-1928), che sostituisce il progetto paterno, presto rivelatosi obsoleto, con il ponte in muratura su cui transitiamo ancora oggi.

Villa Caruso

Arnaldo, mescolando suggestioni da secessione viennese, citazioni montane e vernacolari ed esigenze di praticità, edifica le cosiddette Ville della Pineta, ovvero Villa Caruso e il Rifugio Ferraro Piuma, per cui si occupa di ideare anche arredi e suppellettili. Le ville, purtroppo ora in rovina, si trovano sulla spalla ricca di conifere sovrastante il fiume.

Con il 1930, incontriamo professionalmente Ignazio (1905-1999), destinato alla celebrità, per cui Arquata è un luogo del cuore, uno scrigno di ricordi d’infanzia e di lunghe giornate estive. Nei repertori si legge del suo intervento per le stalle e la latteria dell’antica Cascina Rettorato, immersa nel bosco, dove il simbolo della Trinacria rammenta i Caruso, principali amministratori dei Florio, e dove gli Agusti, signori di fornaci e asili, organizzavano formidabili pranzi campestri: ma questa è un’altra storia.

L’ombra nera della guerra ha funestato città e campagne. Ignazio pensa a come ricordare i ragazzi di Varinella periti nelle trincee, quegli uomini che aveva incontrato in campagna, strappati nel fango e nel puzzo della sofferenza e della polvere da sparo. Progetta un luogo serio e gentile, fatto di poco eppure rivoluzionario: una Cappella Altare, semplice volume col tetto piatto, cemento, lastre di lavagna e mattoni come quelli dei fienili, aria e luce in comunanza con gli alberi, nel 1936. Pochi tratti per unire istanze del Movimento Moderno e urgenza di autenticità.

Casabella, rivista tanto prestigiosa che oggi si chiamerebbe da archistar, loda il progetto come “lezione di umiltà“.

Può essere che alcuni notabili del luogo rimangano perplessi davanti a un disegno che non prevede marmi, aquile, fregi altisonanti o bronzi: di certo, una nuova guerra sta alle porte. La Cappella non viene costruita.

Passa il tempo, molto. Un nuovo millennio scorre, quando un ostinato pensiero d’amore del Prof. Maurizio Tavella viene ascoltato dall’amministrazione comunale. Anno 2003: la Cappella Altare si fa, esce dal mondo delle idee per nascere a quello delle cose tangibili, e ricorderà le vittime di entrambi i conflitti mondiali. Ad occuparsene sarà un nuovo Jacopo Gardella (1936-2021), la quinta generazione attiva in Arquata.

La Cappella, adesso, sta al suo posto. Poco discosta dal cimitero della frazione, e anche poco visibile, un po’ tralasciata, senza un cartello a indicarlo. I mattoni filtrano di scabro misticismo la luce, per accompagnare la semplice croce. La materia sembra sapere tanto i cieli agri del freddo quanto i nitidi stupori azzurri di giugno, come dovevano saperli i ragazzi di un tempo lontano. Non so dirvi quante qualità di silenzio vi si alternino, ma la quiete mai immobile ha tutta la forza dei luoghi di pensiero.

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