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Ancora sull’OLTREGIOGO – Conoscersi per costruire

Giorni fa ho letto un interessante articolo di Sergio Pedemonte intitolato “OLTREGIOGO – Proposta per una definizione”. Durante la lettura sono affiorati alcuni interrogativi che, a mio parere, potrebbero contribuire ad ampliare una riflessione di merito. Va subito detto che nulla potrei aggiungere ai contenuti specifici dell’articolo, ma credo che questo non impedisca una modesta riflessione il cui scopo è incrementare il dibattito in corso.

In un mio commento all’articolo pubblicato su Facebook  ho posto una domanda, forse un po’ provocatoria: perché c’è bisogno di “definirsi”? É chiaro che questo quesito si iscrive alla categoria delle riflessioni “a priori”, ovvero quelle che dovrebbero anticipare il discorso stesso e che vanno a spiegare le ragioni di qualcosa che apparentemente sembra chiaro di per sé, ovvero autoevidente.

Ovviamente a quella domanda si potrebbe rispondere in molti modi, ed è bene sia così, il mio è composto da alcuni spunti riflessivi di natura più sociologica.

Dunque, perché definirsi? Una domanda cruciale che, del resto, è alla base stessa dell’associazione, infatti “Chieketé” si traduce nella domanda “chi sei”. Domanda che va ben oltre i semplici elementi della biografia personale, perché sapere chi è l’altro implica tutto un discorso inerente l’identità, la cultura, il contesto sociale di riferimento, e molto altro ancora.

Il definirsi è a tutti gli effetti un processo, una costruzione sociale che serve principalmente a discriminare ciò che “è” da ciò che “non è”. In questo caso il verbo, oggigiorno utilizzato in modo dispregiativo, richiama il suo significato etimologico di separare, quindi il processo di definizione-costruzione di una identità è un processo di separazione tra il soggetto che si intende definire ed il suo ambiente sociale. Cosa che non dovrebbe stupire, visto che, molto semplicemente, questo avviene anche con le persone: nome e cognome servono proprio per separarci da altri soggetti.

Se è vero che definire implica il costruire una identità, è anche vero che quest’ultima sia legata al concetto di cultura, qui intesa come l’insieme di valori, comportamenti, credenze, simboli e linguaggi. Questi elementi, se condivisi da parte di determinati soggetti —  individuali o collettivi —, costituiscono parte integrante di quel processo identitario che permea la nostra società.

Definire l’Oltregiogo significa “semplicemente” — si fa per dire — trovare una risposta a tutti questi elementi, significa soprattutto partire da questi elementi per giungere a comprendere ciò che è condiviso all’interno di questo territorio.  

Del resto, l’autore dell’articolo, queste domande, in filigrana se le poneva anch’esso: “esiste un territorio che ha dei confini entro cui è possibile determinare un insieme di tradizioni, dialetti, legami, culture, economie e ovviamente storia, comuni?”. 

Ed è proprio qua che vorrei soffermarmi, richiamando due aspetti a mio avviso interessanti: il concetto di “territorio” e l’intenzione di “determinare un insieme”.

Partendo dal concetto di territorio è innegabile che i legami identitari applicati al paesaggio siano una fonte di notevole importanza per la nostra identità, chi non ricorda nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni l’Addio monti pensato da Lucia mentre saluta con profondo rammarico il proprio paese? Individuare, quindi, quel “luogo comune” — espressione oggi usata come sinonimo di stereotipo, ma che all’origine significava spazio-territorio condiviso — è opera imprescindibile per una immediata appartenenza.

Venendo al secondo punto, diventa necessario capire che cosa si intenda con “determinare un insieme”. Se, ad esempio, lo intendessimo come costruire un modello di riferimento con cui paragonare le diverse realtà locali in una sorta di misurazione delle somiglianze, rischieremmo di creare un modello dalle velleità più o meno “uniformanti” e questo, a mio modesto avviso, rischierebbe di cozzare contro la stessa storia socio-culturale di questo territorio. Perché? Perché è una zona di “confine” sotto tutti gli aspetti: politici, culturali ed economici. Creare un modello di riferimento sarebbe oltremodo complesso proprio perché il fenomeno dell’ibridazione culturale è frequente nelle nostre zone. Per far comprendere meglio i termini della questione basti pensare, a titolo esemplificativo, che ai confini tra le attuali Francia e Germania (Alsazia e Lorena circa), prima dell’avvento degli stati nazionali, si parlava una stessa lingua che poi è scomparsa proprio a seguito della creazione dell’identità nazionale che ha modellato ed uniformato tali aree ad una nuova cultura.

Ad ogni modo, non credo che questo sia l’intento dell’autore, tanto è vero che puntualmente precisa “Non siamo padani, non siamo mediterranei e abbiamo se non la storia ufficiale molte storie locali appartenenti a tutti”. E forse è proprio questo il punto forte dell’Oltregiogo, il pluralismo. Un pluralismo che ha creato una vera e propria polifonia, ovvero “l’unione di più suoni o parti vocali o strumentali che si svolgono simultaneamente, ciascuna con una propria e distinta individualità”. 

Questa “simultaneità” va letta, nel nostro caso, come elemento di condivisione. Ecco, dunque, che alla base di un efficace processo definitorio, che sia ovviamente il più inclusivo possibile, vi è la necessità di trovare un linguaggio condiviso. Senza il terreno comune di un significato condiviso qualunque ragionamento, qualunque definizione, qualunque iniziativa anche concreta rischia di essere disorientante ed inefficiente. Ma tale linguaggio condiviso serve anche, forse soprattutto, ad evitare una esasperazione identitaria delle diverse realtà locali, che può degenerare in un improduttivo, anche se per certi versi accattivante, campanilismo. 

Quindi, sebbene la politica riguardi l’esercizio del potere in un territorio ben definito istituzionalmente, l’Oltregiogo contiene in sé l’opportunità di guardare oltre tali confini, in questo caso regionali, mettendosi alla prova nel creare una fitta ed operosa interdipendenza tra enti ed associazioni interregionali.

Per concludere, rispondendo al quesito di partenza possiamo dire che è importante individuare una definizione per la semplice ragione che è la partenza per acquisire la consapevolezza di Sé — altri la chiamerebbero “coscienza di classe”, ovvero la scuola marxiana. Se io so “chi sono” posso individuare i miei bisogni reali e studiare le relative strategie per poterli soddisfare. Una prospettiva questa agevolata dalle dinamiche della globalizzazione che hanno consentito lo sviluppo di quella che viene definita una dimensione glocal (globale e locale), ovvero la possibilità di utilizzare le opportunità offerte dai processi di globalizzazione per rilanciare la propria dimensione locale.

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