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BARBARO, Guido

Guido Barbaro (San Severo, Foggia, 13 gennaio 1926 / Torino, 2 febbraio 2004)

Magistrato, Pretore di Serravalle Scrivia, Presidente della Corte d ’Assise di Torino

Guido Barbaro, nacque a San Severo, Foggia, il 13 gennaio 1926. Laureatosi in giurisprudenza, entrò in Magistratura nel 1950. Prima assegnazione alla Pretura di Napoli per il tirocinio. Nel 1951 ricevette il primo incarico presso il Tribunale di Alessandria. Nel 1953 è Giudice dell’esecuzione immobiliare del capoluogo del Basso Piemonte. Dal 1954 al 1957 Guido Barbaro fu Pretore di Serravalle, sede che lasciò per assumere l’incarico di Giudice della prima Sezione del Tribunale di Alessandria. Serravallese la moglie del magistrato, Anna Boveri, figlia del Dottor Albino Boveri, stimato medico dentista, con studio a Serravalle, sposata negli anni Sessanta.

Il rapporto del magistrato con Serravalle è tratteggiato in un articolo pubblicato dal settimanale locale “Il novese” del 12 febbraio 2004 «…foggiano di nascita e piemontese d ’adozione, è ricordato da molti come una persona distinta, ma affabile e disponibile. Un “ospite” illustre che, nelle non infrequenti visite ai parenti alessandrini, cercava un momento di tranquillità, al riparo dalle tensioni delle aule di giustizia, sebbene sempre sotto gli occhi discreti della scorta…».

La svolta della carriera di Guido Barbaro fu l’assegnazione agli uffici giudiziari torinesi (nella foto sopra, tratta dal quotidiano “La Stampa” dell’11 gennaio 1998, il giudice Barbaro ritratto durante la lettura della sentenza contro i 15 capi storici delle “Brigate Rosse”) servì come Giudice istruttore. Nel 1974 il magistrato pugliese venne nominato Presidente di Sezione e di Corte d’Assise del Tribunale di Torino. Nel 1986, divenne Presidente di Corte d’Assise d’Appello, sempre nel capoluogo piemontese. In pensione nel 1998, dopo 47 anni di magistratura, dal 1999 sino alla morte ricoprì la carica di Difensore Civico del Comune di Torino. La figura di Guido Barbaro è quella di un Magistrato preparato, capace, di forte tempra morale, equilibrato e lungimirante custode del diritto, dal non comune senso della Giustizia e delle Istituzioni, divenuto negli anni Settanta uno dei simboli della lotta dello Stato al terrorismo, in uno dei periodi più duri dell’attacco armato all’ordine democratico, alla civile convivenza nella società italiana. Nel 1975 fu assegnata alla sua autorevole conduzione il processo, istruito davanti alla Corte d’Assise di Torino, contro le organizzazioni eversive, estremiste, paramilitari di orientamento neofascista di “Ordine nuovo” in Piemonte e di “Ordine nero” in Toscana. La Pubblica accusa venne sostenuta da Luciano Violante, allora magistrato inquirente, futuro presidente della Commissione parlamentare antimafia e della Camera dei deputati.

Guido Barbaro , come emerge da un articolo del quotidiano “La Repubblica” del 3 febbraio 2004, intitolato “Barbaro, giudice senza paura” «…era salito alla ribalta pubblica nel 1978, quando, in veste di presidente della Corte d’ Assise subalpina, aveva presieduto tra mille difficoltà e pericoli, nel cuore degli anni di piombo e durante il sequestro di Aldo Moro, il processo al nucleo storico delle Br, quello costituito da Renato Curcio, Franceschini, Ferrari, Gallinari, Buonavita, Bertolazzi e Micaletto. Successivamente, oltre ad alcuni processi nei confronti di numerosi esponenti della criminalità organizzata, aveva presieduto ad altri dibattimenti a carico di folti gruppi di brigatisti che, per otto anni, fino alla primavera del 1980, avevano insanguinato Torino con attentati, ferimenti e omicidi, tra i quali quelli del presidente dell’ Ordine degli avvocati Fulvio Croce, del maresciallo di polizia Rosario Berardi, del vicedirettore del “La Stampa” Carlo Casalegno. Uscito senza censure da un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per l’ iscrizione alla loggia massonica P2, Barbaro divenne presidente di Corte d’ Assise d’ Appello e negli anni Novanta processò anche i membri del potente “clan dei catanesi”, che aveva monopolizzato lo spaccio di droga in città, così come una dipendente della “Olivetti” accusata di spionaggio a favore dell’ Unione Sovietica…».

Nell’articolo de “Il novese” del 12 febbraio 2004 viene rievocato un altro impegnativo processo condotto dal giudice Barbaro: «…Qualche anno dopo, un altro processo scottante, istruito sul pen­timento di Patrizio Peci, che portò alla sbarra un centinaio di mi­litanti e fiancheggiatori delle Br. Se Curcio dalla gabbia nell’aula bunker minacciava: «Presidente, noi spariamo alla toga come simbolo,se poi dentro la toga c’è lei peggio per lei», Barbaro non rinunciò mai a cercare un dialogo con i brigatisti. Una volontà di conoscere le ra­dici più profonde del fenomeno eversivo, riconoscendo agli im­putati il diritto di esprimersi in aula, che gli costò feroci critiche anche da parte di alcuni esponenti politici di governo. Di quegli anni Barbaro parlava poco e controvoglia. A distanza di tanti an­ni il magistrato aveva recentemente confidato ad un giornalista: «Il silenzio è la cosa migliore. Non rivelerò mai se ebbi paura…».

Così il collega magistrato, l’alessandrino, Gian Carlo Caselli, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Procuratore Capo della Repubblica di Torino, negli anni Settanta ed Ottanta Giudice istruttore penale a Torino, ricostruisce nei dettagli il processo di Torino alle Brigate Rosse (nella foto a lato, tratta dal sito web www.torino.corriere.it, una delle udienze) e l’elevata professionalità dimostrata da Guido Barbaro, in un articolo intitolato “Il processo, gli eroi e i pavidi“, pubblicato dal quotidiano “La Repubblica“, il 17 marzo 2018: «…Conclusa l’inchiesta sul Nucleo storico delle Br, «faldoni» zeppi di prove vengono trasmessi per il giudizio alla Corte d’Assise di Torino. Prima udienza lunedì 17 maggio 1976…

Con la città ancora in festa per il settimo scudetto granata, conquistato il giorno prima. In aula… (Presidente Guido Barbaro) 46 imputati. I capi brigatisti tutti in manette. Le imputazioni principali: banda armata, sequestri di persona, rapine, lesioni. Prima ancora di cominciare si pone un problema non semplice. L’ordinamento giudiziario impediva a Bruno Caccia (Pm della fase istruttoria) di sostenere l’accusa in udienza. Doveva essere un magistrato della Procura, non della Procura generale come Caccia. Solo che tutti (tutti!) i magistrati della Procura rifiutarono l’incarico. Fu perciò necessario designare d’ufficio il più anziano, l’unico che non poteva dire di no. Non proprio una dimostrazione di serenità e coraggio. Come da copione, gli imputati esordiscono urlando un bellicoso proclama: rivendicata la militanza nelle Br e assunta la responsabilità politica di ogni azione dell’organizzazione, minacciano violente ritorsioni contro chiunque si presti ad assumere il ruolo di difensore. Volano oggetti mentre i brigatisti sbraitano. I carabinieri faticano non poco a ristabilire l’ordine. Anche perché non erano ancora in uso, nelle aule di giustizia, le «gabbie» per i detenuti che, proprio dopo questo assaggio di «processo guerriglia», verranno costruite di fretta in tutti i tribunali. Pochi giorni dopo (8 giugno 1976), sul processo di Torino – che aveva come epicentro il sequestro Sossi – si abbatte la bufera della strage di Genova con il triplice omicidio del procuratore generale Francesco Coco e degli uomini che lo scortavano, Giovanni Saponara e Antioco Dejana. Un’evidente rappresaglia per l’opposizione di Coco (che coraggiosamente aveva respinto il ricatto) alla scarcerazione dei detenuti – responsabili di omicidio e rapina – che i brigatisti avrebbero voluto scambiare con il loro ostaggio Sossi. Prigionieri contro prigionieri. Nell’ottica: Br contro stato. Una logica di guerra. Tremendo è l’impatto sul processo di Torino, che viene rinviato di un anno, al 1977. Ma questa volta non si celebra neppure un’udienza. I brigatisti avevano tutti i loro «bravi» difensori. Li nominavano in ogni processo, avevano regolari contatti e colloqui in carcere, si avvalevano della loro assistenza per ogni atto processuale. Soltanto al dibattimento (cioè al processo in pubblica udienza) ne ostentavano uno sdegnato rifiuto. Esteso anche ai difensori d’ufficio, considerati (e minacciati!) come «collaborazionisti». Ma un processo senza difensori in democrazia è una farsa inconcepibile. Per questo, in vista della ripresa del processo il presidente Barbaro nomina come difensore d’ufficio il più alto avvocato torinese, il presidente dell’Ordine Fulvio Croce, che accettò con grande coraggio e senso civico. Nel tardo pomeriggio del 28 aprile del 1977, cinque giorni prima della ripresa del processo, l’anziano avvocato, mentre sta rientrando in studio da solo, viene aggredito alle spalle e ucciso. Il piombo minacciato in aula dagli imputati si materializza nella vigliaccheria di un commando omicida. Lo choc provocato dall’assassinio di Croce fu devastante e impedì la formazione della giuria popolare. Non si trovarono sei cittadini (sei!) disposti a fare i giurati. «Sindrome depressiva» è la formula che compare nei numerosi certificati medici che si accumulano sul tavolo di Barbaro. Sindrome depressiva: per non scrivere direttamente «paura». I terroristi in pratica hanno vinto. Torino, città da sempre capofila delle lotte per la democrazia e per l’affermazione di ogni diritto, a partire da quelli operai, è in ginocchio. E il processo viene nuovamente rinviato di un anno. Nel 1978 si riesce a formare la giuria popolare, grazie anche all’esempio di Adelaide Aglietta, allora segretario dei Radicali, che – sorteggiata come supplente – accetta senza indugi. E il processo faticosamente riprende (con il decisivo contributo di un gruppo di coraggiosi difensori d’ufficio). Come riprende la scia di sangue della ferocia brigatista. Con un cinico tempismo (se non si trattasse di omicidi lo si potrebbe definire burocratico), per sparare le Br scelgono il primo e l’ultimo giorno d’udienza, uccidendo il maresciallo Rosario Berardi e il commissario Antonio Esposito. L’uno e l’altro attivissimi nelle indagini contro i «capi storici» delle Br in quanto già componenti del Nucleo antiterrorismo diretto dal questore Santillo. L’apice dello scontro tra Br e Stato avviene il 16 marzo con la strage della scorta dell’onorevole Moro, sequestrato, tenuto a lungo prigioniero e alla fine trucidato. Il sequestro fu rivendicato per la prima volta proprio dalle «gabbie» del processo di Torino ed in cambio di Moro i brigatisti proposero la liberazione di vari detenuti, alcuni dei quali «alla sbarra» proprio a Torino. Sempre durante il processo vi furono a Torino vari altri attentati: contro il caporeparto Fiat Palmieri e l’agente Digos De Martini; la «gambizzazione» dell’ex sindaco di Torino Picco; fino al ferimento mortale dell’agente di custodia Cutugno. Una feroce strategia di annientamento. E tuttavia questa volta il processo si conclude (23 giugno 1978) , nel pieno rispetto di tutte le regole processuali e finanche dell’identità politica degli imputati… Una scelta intelligente e lungimirante del presidente Barbaro… Con la sua gestione del processo, invece, Barbaro demolì il teorema brigatista secondo cui la rivoluzione non si processa se non gettando la maschera falsamente democratica indossata dallo Stato. Gli arzigogoli criminali delle Br si rivelarono falsi e scellerati. Le loro certezze ideologiche svanirono. Così il processo si concluse con giuste condanne, comminate secondo le regole di un giusto processo. Rispettando pure chi avrebbe voluto abbatterla, la democrazia vince. Anche se a durissimo prezzo e con un numero inaccettabile di vite umane perdute, nelle Br si insinua un fattore di crisi che sarà dirompente…».

Interessante per approfondire l’azione del giudice Guido Barbaro, un’intervista di Vincenzo Tessandori, pubblicata dal quotidiano “La Stampa” l’11 gennaio 1998, in occasione del pensionamento del magistrato: Leggi…

Moltissimo materiale documentario relativo al processo al nucleo storico delle brigate Rosse è sul sito L’alba dei funerali di uno Stato.

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