Rumori e suoni serravallesi degli anni 60
Il primo rumore di una giornata serravallese targata anni 60 era, per me, un inno al boom economico e al raggiunto benessere. La ditta di Mario ed Elio Pavese1, posta sulla destra all’imbocco di via Molino, partiva presto con la sua imbottigliatrice automatica gemendo rumori secchi e rapidi in successione, volti a fendere gli ultimi silenzi della notte ormai trascorsa: tactatactac, tactatactac, tactatactac. Il suono filtrava tra le fessure delle mie tapparelle, diluendosi fra i primi raggi del sole che, ancora assonnato, sbadigliava luce dal Seminario o da Monte Spineto, a seconda delle stagioni. Già pregustavo il sapore di una fresca gassosa, o di una spuma, che si potevano acquistare direttamente anche da loro, fasciate da quelle etichette celesti e arancioni, a prezzi estremamente convenienti.

in fondo la stazione e a destra il bar della Stazione di Gigi Bagnasco, prima della costruzione del palazzo Eur
Noi si stava sopra il Lux, quasi dirimpetto alla stazione ferroviaria ed era ancora possibile sentire lo sferragliare di vecchie locomotive a vapore fendere sbuffi di fumo bianco distesi sopra le traversine, oppure l’urlo rauco delle corte littorine, nate ai tempi del fascio. Dal letto ovviamente non potevo udirli, ma i pendolari seduti nelle fumose sale d’aspetto della vicina stazione sapevano bene se il treno stava arrivando da Novi o da Genova. Dingdingding strillava il campanello più a nord, annunciando gli arrivi dei convogli partiti dalla Superba, dengdengdeng andava di controcanto l’altro, presentando il muso marrone di locomotive trainanti cigolanti vagoni diretti verso il mare.

(foto di Gianpaolo Pepe)
La sveglia definitiva la urlavano tuttavia le sirene delle fabbriche, scandendo il tempo agli operai diretti al lavoro. Guai a far tardi: la Gambarotta, sempre in anticipo rispetto alla Fidass, lanciava i suoi richiami alle 7.45 e quello definitivo alle 8.00. Era, il suo, un urlo chiaro come se strillasse una “e” o una “a” e da bambino pensavo che a gridare fosse la ciminiera, posta a destra della torre di distillazione, quella che un fulmine decapitò con un boato assordante proprio sotto i miei occhi sbarrati e incollati dietro il vetro della portafinestra in cucina. Cupo invece, quasi una “u”, il richiamo della fabbrica di Dante Divano, forse acquistata, la sirena non la fabbrica, alla fine della guerra, dal Comune. Durante il conflitto quella aveva terrorizzato per mesi i serravallesi, spaccando l’aria in terribili allarmi anti aereo, ma io, nato nel 56, allora non potevo saperlo.

Chi dormiva sotto i tetti addossati ai tre campanili, dominanti Serravalle vecchia, godeva di sveglie ancor più antiche, suonate dal bronzeo batacchio delle campane ed allora cantavano proprio tutte, mosse, con amore brusco, dai rispettivi sacrestani.
Un suonorumore che ora non si ode più era l’agroconcerto” delle ultime trebbie degli anni trenta, trainate da trattori Landini Vélite, alimentati a gasolio e ancora divise dalla mietitrice. Ruggiva a quattro tempi il motore gridando il suo orgoglio contro il muro delle case e quando si metteva in moto sembrava esplodesse di rabbia. Opaco e angosciente era invece lo “sbam” che poteva provenire dal ponte della Nave. La curva detta “della morte” aveva sparato nella Scrivia qualche camion proveniente da Genova, poco attento ai limiti di velocità.

Suoni allegri li portava invece il Cantagiro, con cantanti famosi seduti su spider strombazzanti. Ricordo di aver riconosciuto Gianni Morandi, il mio idolo, grande avversario di Claudio Villa a Canzonissima, salutare le persone assiepate lungo viale Martiri e Via Berthoud, in una bella giornata di sole in piena estate. In casa nostra la musica prodotta dal nostro giradischi era solo la classica, ma anche la leggera vi faceva capolino, sparata com’era, a tutto volume dal Jukebox del bar Lux. Gettonatissima nel 1963 era la voce di Edoardo Vianello con la sua Abbronzatissima.

con Gino Paoli
Ma a me ragazzo, i rumori più graditi erano due. Uno lo scoprii già adolescente: riconoscerei il suono di una palla da basket che rimbalza anche senza poterla vedere, così come il fruscio che questa fa frustando la retina o il suo sdeng contro il ferro. Potrei seguire una partita anche bendato, tanto mi sono familiari tutti quei suoni, nati, nelle nostre terre, sul finire di quel decennio e mai uditi prima, dalle generazioni di serravallesi che ci hanno preceduto.

Più antico e caro mi è invece il suono di un pallone di plastica Elite, acquistato da Berto d’Angelo, il signor Gualco in verità, e tutti i suoi rimbalzi, del pallone non del Gualco, contro i muri del campetto della chiesa, i pali delle porte e l’inferriata verso via Tripoli. Una melodia quella, che si interrompeva, fra la disperazione di chi stava giocando, quando la palla moriva sulle aguzze punte della cancellata, sgonfiandosi orribilmente.
- rispettivamente il nonno e il padre del dottor Ezio Pavese [↩]