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Il re dei pagliacci di Voltaggio

Da sotto lo sportello della persiana scrutavo impaziente la via, a quell’ora inondata di sole e di luce accecante. Allungavo il collo nella speranza di avere una visuale migliore, ma non era necessario: a mezzogiorno, di Ferragosto, a Voltaggio, come ovunque, in giro non c’era proprio nessuno.

Tutti tappati in casa a celebrare il rito di mezza estate cercando di difendersi dalla calura. Eppure, ero sicuro di non essere l’unico in attesa. Ogni tanto vedevo qualche persiana schiudersi leggermente e far capolino il volto speranzoso di un bambino che, come me, aspettava. Speravo solo che non tardasse troppo. La finestra della cucina dove mangiavamo si affacciava sul torrente, dalla parte opposta rispetto alla via, e c’era il rischio che non mi accorgessi del passaggio di … già, come diavolo si sarà chiamato? Non lo sapevo e non l’ho mai saputo. In paese lo chiamavamo “quello del ferragosto” perchè tutte le estati, a Ferragosto, faceva la sua comparsa puntuale come un treno (nel senso che il giorno era quello, ma l’ora era approssimativamente compresa fra mezzogiono e l’una).

 Non era un pezzo d’uomo, anzi, a vederlo dall’alto sembrava ancora più minuto. Non so come si spostasse; probabilmente a piedi, o magari possedeva una moto o un” Ape” che lasciva posteggiata all’ingresso del paese. O chissà un ronzino sottratto al macello. Fatto sta che compariva all’improvviso, annunciato dal suono della sua fisarmonica il cui peso ingobbiva la già esile figura. Era l’erede di quei girovaghi cantastorie di cui avevo tanto sentito parlare: quelli che esibivano orsi o scimmiette danzanti e radunavano attorno a sè piccole folle di tutte le età richiamate dal suono incerto di un organetto. Allora la gente ballava, i bambini si rincorrevano e imitavano le mosse del povero orso o le grida della scimmietta. Adesso ci si limitava, complice il caldo bestiale, ad affacciarsi sulla via per ascoltare quel concerto improvvisato.

Portava un cappello di paglia per ripararsi dal sole. Ai piedi calzava dei vecchi sandali; i pantaloni, preferibilmente grigi, erano sostenuti da un paio di robuste bretelle bordeaux e la camicia che un tempo era stata bianca era di qualche taglia più grande. Il volto era una via di mezzo tra una castagna secca abbrustolita e il muso di una tartaruga. Sopra il naso, adunco, due spesse lenti lasciavano intravvedere i puntini scuri di due occhietti vivaci. Ma quello che colpiva maggiormente era la bocca: denti, pochi e mal distribuiti a dire il vero, ma sapeva modellarla fino a farle assumere smorfie esilaranti che accompagnavano le sue esibizioni canore. Eh, si, perché la fisarmonica gli serviva solo come accompagnamento. Lui era un solista, una specie di one man band.

Per superare i suoi evidenti limiti vocali si era dotato di un microfono collegato ad una tromba da altoparlante e che un po’ di fil di ferro e generosi giri di nastro isolante teneva fissato alla parte superiore della fisarmonica. Questo rendeva esilarante ogni sua esibizione, obbligato com’era a rincorrere con la bocca le evoluzioni che lui stesso provocava allo strumento suonandolo. Se da un lato l’altoparlante rendeva la sua voce gracchiante come quella di un vecchio 78 giri, dall’altro gli permetteva di raggiugere anche i piani alti delle abitazioni, altrimenti esclusi dallo spettacolo. Difficilmente, data l’ora, qualcuno scendeva in strada. Per lo più al termine di ogni pezzo veniva gratificato da una pioggia di monetine che i più previdenti avvolgevano con carta di giornale per non farlo correre di quà e di là alla loro ricerca. Dopodichè si spostava un po’ più in là ed attaccava un’altro pezzo. E che pezzi! Ma quali valzer o mazurke! Era un vero e proprio juke box! Conosceva tutti i successi più recenti e li mescolava ai classici della canzone italiana. “Volare” era immancabile, ma il suo pezzo forte era Celentano. Ad immaginare quella bocca sdentata ansiosa di elargire ben “ventiquattromila baci” c’era da morire dalle risate.

Dove però dava il meglio di sè era quando attaccava Neil Sedaka e quel Re del Pagliacci ( in originale King of clowns ma lui non lo sapeva) che sembrava fatta su misura per lui. Era anche quella che preferivo a livello di smorfie. Messo di traverso, lo sguardo sempre rivolto verso l’alto come se cantasse per ogniuna delle persone affacciate, il suo viso assumeva un ghigno tragico: “Ecco qui, come ogni sera…” E quando la cantava si trasformava ai miei occhi in uno sgangherato Don Chisciotte che vanamente sperava di incantare un’improbabile Dulcinea nei volti che si sporgevano dai balconi “Per un re senza regno, che ha perduto la regina del suo cuore, per guarire il suo dolore, lui regala a tutti un po’ d’ilarità.”. La strada infuocata diventava il polveroso terreno di una giostra medievale. Il cappello di paglia assumeva le forme di un elmo un po’ ammaccato, la fisarmonica si espandeva fino ad avvolgerlo in una scintillnate armatura su cui spiccava il nastro delle sue bretelle bordeaux: i colori dell’amata. E il microfono si allungava fino a diventare una puntuta propaggine, una lancia che roteava minacciosa ora di qua, ora di là in direzione di uno sfidante che, intimorito, non si presentava mai. Malinconicamente il motivo volgeva al termine, lo scintillio si offuscava, l’elmo di paglia lasciava intravvedere la maschera triste e sudata di chi “…non può raccontare la tristezza del suo cuore senza amore” Terminata la canzone, svanita la magia, restava un attimo immobile in silenzio, riprendeva le sue sembianze umane e si affrettava a raccogliere quanto la generosità della gente gli lanciava dall’alto.

“È pronto, sbrigati!” Il richiamo di mia madre era arrivato a sancire la fine dell’inutile attesa. Ormai, non sarebbe più passato. Richiusi deluso la finestra stringendo ancora nel pugno una manciata di monetine sudate

Quel Ferragosto non si fece vedere e neppure i sucessivi. Di lui non ho più saputo nulla. E’ entrato a far parte di quella personale mitologia dell’infanzia che ognuno di noi si crea, popolata da personaggi che col passare del tempo assumono contorni sempre più sfocati, fino a farti dubitare della loro esistenza. Non nel suo caso però. Quando d’estate torno nella mia casa di ragazzo e mi affaccio alla finestra di quella che è ancora la mia cameretta, non è raro che tendendo l’orecchio mi giunga l’eco di un motivo inconfondible: “il suo pubblico non vede…quest’uomo triste, quando è solo, quando piange e si dispera…” . Sarà il caldo.

Un pensiero su “Il re dei pagliacci di Voltaggio

  • storia meravigliosa

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