Enciclopediaenciclopedia-approfondimentiIl regalo del mandrogno

Da “Il regalo del Mandrogno” – La battaglia di Marengo

E questo è, a un dipresso, il racconto che Isidoro Chénousset, soprannominato dai suoi compagni Chien-Rousset, ufficiale dell’Esercito Repubblicano comandato da Napoleone Buonaparte, fece, febbricitante e con un po’ di delirio, nella notte tra il 15 e il 16 giugno 1800, a Rosina Montecucco; racconto da cui risulterebbe che Napoleone Buonaparte, per motivi che non sono passati alla storia, fu definitivamente sconfitto nei pressi di Marengo in quel di Alessandria, troncando così per sempre la sua promettente car­ riera politica e militare.

Ufficiale dai capelli rossi
(anonimo 1800? – collezione personale dell’autore)

– Sin dalla sera del 18 Brumaio io avevo capito che le cose sarebbero andate a finir male. E lo dissi a Manet, il mio grande amico Giovanni Manet, Ma quella sera Manet era di cattivo umore per colpa di Marta, la sua amica. Era distratto, non mi ascoltava. Sempre così, Manet, quando litiga con Marta! Noi rischiammo di rompere i rapporti per colpa di Marta e di Bonaparte … voi Italiani dite Buonaparte, ma per noi Francesi è più facile dire Bonaparte.

Rischiammo di guastarci perché io dicevo:

«Manet, le cose si mettono male, per colpa di quell’artigliere». Credetemi, signora, non si può avere fiducia in un ufficiale che viene dall’artiglieria. L’artigliere vede le cose – intendo le cose di guerra – sempre da lontano; non capisce un corno di quello che avviene in mezzo alla battaglia. Per capire una battaglia bisogna starei in mezzo, proprio dove più ci si pesta, come me e come Manet. Noi, credetemi, ne abbiamo viste, e da vicino! Bene: cc Le cose si mettono male» dico a Manet. E Manet pensa a Marta, la sua amica, con cui ha litigato, e non mi ascolta; è distratto. E poiché anch’io ero preoccupato di quello che era successo e di quello che il Bonaparte aveva combinato, dico: cc Ohi, Manet, quando la smetterai di pensare a Marte-au-grand-cul?». Lo dissi, credetemi, sbadatamente, senza volerlo. Sapevo perfettamente che Manet andava su tutte le furie se gliela chiamavano Marte-au-grand-cul. Eppure vi garantisco che quel nome lo meritava, perché …

– Avete ragione, signora, scusate. Noi ufficiali della Rivoluzione siamo un po’ troppo franchi: siamo abituati a chiamare pane il pane, vino il vino, e Marta, l’amica di Manet, la chiamavano Marte-au-grand-cul, ecco tutto. Ma lui, chissà perché, non voleva. In altre circostanze, mi sarei ben guardato dal dire al mio amico Manet una cosa che poteva fargli dispiacere; ma quella sera ero seccato, preoccupato, per via del Primo Console.

Manet è andato su tutte le furie e per un pezzo non mi ha più rivolto la parola. E per me era penoso, ve lo accerto. Come potevo stare senza parlare con Manet? E questo per colpa del Bonaparte! Basterebbe quel fatto, vedete, per farmi contento, oggi, quando penso che ieri a Marengo ha preso un fracco di legnate. Mi spiace per Desaix, per Lannes, e per quel sacripante di Chambarlhac, che ha fatto una carriera che non si meritava, ma in fondo è un buon diavolo!

Ma quelli si salveranno: specialmente Desaix: quello sa sempre cavarsi d’impaccio. Chissà che non diano a lui il comando … Quello è in gamba, per dio, altro che l’ufficialetto d’artiglieria! Generale d’artiglieria! … E pensare che ieri a Marengo gli saranno rimasti, sì e no, dodici cannoni!

– Sì, signora, poi mi sono rappacificato con Manet; sicuro: il 30 Piovoso, cioè il giorno in cui il Primo Console ha voluto fare il suo ingresso alle Tuileries … Già, alle Tuileries! Lo sapete voi che cosa sono? No? … Ebbene ve lo dico io: le Tuileries erano … la casa del Re, del Capeto! Figuratevi! E lui, il generalino d’artiglieria, dopo essersi fatto nominare a forza Primo Console, ha voluto andare ad abitare nella casa del Re! Ci vuole una bella faccia tosta!

– Sì, signora, avete ragione: tanto valeva lasciarci il Re. Almeno quello era un Re vero, che sapeva fare il Re, parlare da Re, muoversi da Re …

– No, signora, Bonaparte non è che un ufficialetto d’artiglieria che se si mettesse a fare il Re, farebbe ridere! Ma è ambizioso in modo straordinario: sarebbe capace di mettersi in testa di diventare non solo Re, ma anche Imperatore! Ah! Ah! Cara signora, lo ha salutato per sempre l’impero, ieri a Marengo!

Alle Tuileries c’è arrivato; ed a me, che di certe cose mi intendo, è bastato quel fatto per capire subito che Bonaparte era spacciato e non avrebbe mai fatto strada. Degli altri due consoli, uno, Lebrun, che secondo me è più idiota di Bonaparte, gli è corso dietro: alle Tuileries anche lui! Ma l’altro, Cambacérès, che ha la testa sul collo ed è uomo di carattere, ha detto: «lo nella casa del Re non ci vado!»  E non c’è andato.

Bene: quel giorno io ero di servizio alle Tuileries, e c’era anche Manet.

Non sapevo come comportarmi con lui che non mi parlava. Avrei voluto dirgli: «Via, Manet, falla finita. Non vale la pena che ci guastiamo per una donna. E poi – avrei aggiunto – è vero o no che la tua Marta quel nome se lo merita? E allora non prendertela: dopo tutto se è così, è così. Perché ti arrabbi? Vedi, Manet, bisogna sapere stare allo scherzo. Tu non mi chiami sempre Chien-Rousset Eppure io non mi arrabbio: io so stare allo scherzo!».

Questo avrei voluto dirgli; ma Manet mi stava lontano, ed io non potevo muovermi. A un tratto però Manet (è un gran bravo ragazzo, Manet) mi è venuto vicino e mi ha detto sottovoce:

«Guarda là. Dove sarà quel cretino che lo ha scritto?..». «Che cosa?» faccio io.

«Là, sul corpo di guardia».

Solo allora mi sono accorto che su di uno dei corpi di guardia c’era ancora una vecchia scritta: «La monarchia di Francia è abolita e non si rialzerà più». Cretini!. .. E intanto il Primo Console faceva il suo ingresso alle Tuileries! Roba da mettersi a sacramentare …

– Signora, non fate quel viso serio. Noi soldati della Repubblica, quando qualche cosa non va, ci mettiamo a sacramentare. Forse ve ne sarete già accorta, ma non fateci caso. Però quella volta non ho bestemmiato, prima di tutto perché ero in servizio, e poi perché ero felice che Manet mi avesse di nuovo rivolto la parola. E più tardi gli ho detto:

«Hai visto, Manet, che le cose si mettevano male?»,

«Sì, avevi ragione tu … E avevi ragione anche a chiamarla Marte-au­ grand-cul» •

lo ne sono stato felice, perché se anche Manet la chiamava così, era certo che avevano litigato. Infatti si erano lasciati per sempre. Meno male. Era tempo! Abbiamo però quietato per qualche mese soltanto, perché si sono rappacificati quando stavamo per partire per il San Bernardo. Maledetto San Bernardo!

Credete a me, signora, la prima causa delle batoste prese ieri a Marengo, è stato proprio il San Bernardo. lo avevo detto a Manet:

«Manet, andiamo in Italia. Da che parte passiamo, secondo te?».

«Non so che cosa abbia in testa quell’artigliere!» dice lui, perché anche Manet ha poca fiducia nell’artiglieria.

No – rispondo io – non c’è che una via possibile: il Sempione. Anche un Primo-console-d’ artiglieria deve capire che l’unica strada è il Sempione». – No, Chien-Rousset; è molto meglio il Cenisio».

«No, Manet, il Sempione …».

«Bene – dice lui – io scommetto la mia pipa contro la tua che passeremo dal Cenisio ».

«Sta bene: Sempione contro Cenisio, pipa contro pipa».

Ma abbiamo conservato entrambi le nostre pipe perché siamo passati dal San Bernardo. In ogni modo, della cosa non si è più parlato perché al momento di partire Manet era di nuovo offeso con me. Ed offeso sul serio. E questa è stata l’origine di tutti i miei guai. Già, perché io gli avevo detto:

“Avanti, Manet! Andiamo in Italia! Là troverai qualche cosa di meglio di quella carogna di Marte-au-grand-cul che ti faceva becco in un modo schifoso!».

– Scusate, signora, avete ragione: ho parlato male, ma noi, quando una donna fa becco un nostro amico, non misuriamo gli aggettivi. Ebbene, volete crederlo, signora? Neppure a farlo apposta, Manet si era riconciliato con quel vecchio cammello: pardon, con quel grand …, scusate ancora, con la sua amica, proprio il giorno prima! Ma io come potevo immaginarlo? E Manet si è arrabbiato, proprio sul serio, un po’ per il vile aggettivo, ma soprattutto perché un uomo si arrabbia sempre quando gli dicono che è becco. Così io. durante tutto quel maledetto viaggio non ho pensato che a riconciliarmi con Manet. Eravamo vicini, quando le prime truppe si sono avviate su per il San Bernardo. Che disastro, cara signora! Bonaparte, naturalmente, aveva mandato su per primo Lannes. Se ci fosse stato Desaix, avrebbe mandato lui, perché Bonaparte fa sempre così: manda avanti Desaix, e Desaix se la cava sempre. Sono sicuro che se ieri Bonaparte è andato all’altro mondo. prima di scendere all’inferno ha chiamato Desaix e gli ha detto: «Desaix, amico mio, devo andare all’inferno. Va un po’ avanti tu a prepararmi ogni cosa», E Desaix, naturalmente, ci sarebbe andato. Ah! Ah! Questa è buona … Mi piacerebbe raccontarla a Manet … Ma lo vedrò mai più, Manet? Andiamo avanti. Ha mandato Lannes …

– No, signora; non all’inferno, ma quasi: su per il San Bernardo. Ed a me si stringeva il cuore – era esattamente un mese fa – vedendo quella brava gente andar su, di notte, per quella strada, tra la nebbia e il nevischio … Poi siamo andati su tutti. Ed io cercavo di incontrarmi con Manet per riconciliarmi con lui. Ma non mi riusciva più di trovarlo in quella tremenda confusione. Non potete avere un’idea, signora, di quanta confusione e disordine e imbroglio ci fosse. Faceva un freddo da cani; vento, neve …

Bene: quando ero quasi in cima a quel maledetto passo, Manet mi è passato vicino. Andava su di corsa; evidentemente doveva portare qualche ordine. Ma si vedeva che era stanco e non ne poteva più. Gli sono corso dietro. Volevo dirgli: «Manet, sei stanco. Lascia andare me al tuo posto …».

Ad un tratto l’ho visto fermarsi, impalarsi e fare il saluto. Io non vedevo niente, in mezzo a quella buriana. Mi sono avvicinato, e non riuscivo a vedere che un mulo: un mulo borghese; si vedeva benissimo che non era un mulo militare. lo me ne intendo di queste cose. Era un muletto sbilenco, fermo; ed un uomo, un borghese, un montanaro, lo teneva per la cavezza.

«Che cosa ci fa qui questo mulo? – penso – e Manet che cosa fa? Fa il saluto al mulo borghese?..».

Ma proprio in quel momento, in mezzo alla nebbia ho visto muoversi. qualcosa, contro una roccia; qualche cosa di grigio.

Pensate, signora: eravamo quasi sul colle. Davanti a noi i soldati della Repubblica scendevano già verso la pianura. Dietro di noi altri soldati salivano, salivano, e poi sarebbero scesi giù, contro il Re, contro gli aristocratici, contro tutto un vecchio mondo traballante e marcio. Il vento che ci investiva pareva quasi spingerei avanti: quella interminabile fila di uomini pareva portata verso l’Italia dal vento fatale della Rivoluzione. Lassù sul San Bernardo, passava la storia, e là tra quel vento fatale, in quella nebbia che dava, a tutta la scena un aspetto apocalittico, là davanti alla storia che passava, il Primo Console faceva pipì contro un sasso.

– Non c’è niente da ridere, signora; anche i Generali-Primi-Consoli ogni tanto devono scendere di sella come gli altri mortali che non abitano le­ Tuileries!

È venuto verso di me – e naturalmente ho dovuto fare il saluto anch’io – ed è rimontato sul muletto. Ah! signora, se lo aveste visto!… Altro che Tuileries!… lo scommetto che se ieri gli fossero andate bene le cose, e fosse tornato a casa da vincitore, certamente si sarebbe fatto fare un gran quadro: «Il Primo Console al passaggio dal San Bernardo!». E si sarebbe­ fatto dipingere su di un magnifico cavallo impennato, con una bella divisa ricamata, guanti bianchi, ed un grande mantello spiegato al vento!. .. Quelle sono le cose che piacciono a lui! Ma se lo aveste visto! Se ne stava mogio sul suo muletto borghese, con le gambe ciondoloni, il cappello rincalcato e le orecchie paonazze dal freddo. Era livido come un morto, tutto rattrappito in un certo pastranuccio grigio male abbottonato, con una mano infilata nella bottoniera. E il vento, che lo investiva per didietro, gli dava un aspetto ancor più meschino! Per non farsi accorgere che gli battevano i denti, ciarlava col mulattiere; si faceva raccontare le sue faccende di casa … Ma questo non importa, signora. lo continuo a cercare di Manet e lo trovo più su, dove c’era un ingombro causato dalle artiglierie. Quei maledetti cannoni che non servono a niente. Ma lui, il generale, ci teneva, perché lui viene dall’artiglieria! Figuratevi che non c’era modo di mandarli avanti: le slitte si erano fracassate sotto il loro peso, ed allora avevano spaccato dei tronchi e ne avevano fasciati i cannoni per poterli trascinare o far rotolare. Pensate che fatiche bestiali! E valeva proprio la pena di [are tanta fatica per portare tutti quei cannoni … in bocca ai Tedeschi! Già, perché ieri se li è presi quasi tutti Melas, l’austriaco. Ma quello è un uomo in gamba, signora. lo sono un soldato e mi levo il cappello a chi se lo merita, anche se è un nemico. E Melas, vi dicevo …

Mi accorgo che divago, signora. E quella maledetta vostra pendola giù, da basso, che quando suona le ore sembra vi faccia vibrare le budelle, ha suonato mezzanotte. È tardi, è vero? Volete andarvene a dormire?

– Grazie. Che cosa volete, signora, io parlo, parlo senza accorgermene. Sono ciarliero per natura; tutti i Chénousset lo sono; ma soprattutto dopo una giornata campale, come quella di ieri, mi resta addosso un’agitazione che mi fa parlare più del solito; e solo parlando mi calmo … Ma certo queste ·cose non vi interessano …

– Davvero? Vi interessano proprio? Mi fa piacere, perché poter parlare così mi dà un grande sollievo. Forse anche ho un po’ di febbre … Mi date da bere? Grazie. Ma voi sarete stanca; dovrete pure andare a dormire …

– Siete molto gentile, signora, a volermi ancora far compagnia. Posso -continuare a parlare?

– No, non mi stanca: mi fa bene. D’altra parte devo pure spiegarvi perché sono venuto a finire qui … al.; come si chiama? Mont-Cocu? …

– Ah, già! Monte Cucco è il vostro nome … Ed allora Cocu? … Ah, ho capito : la casa si chiama Cucco. Scusate, signora, ma i nomi sono il mio debole; non riesco mai a ricordarne uno giusto. Che cosa vi dicevo?

– Ah, sì. Le artiglierie. Vi parlavo dei cannoni. Bene: uno di quei cannoni, mentre lo stavano trascinando, è rotolato giù per una balza ed ha schiacciato i piedi a un soldato. Ho appunto trovato Manet che stava dandosi d’attorno per tirar fuori quel povero Cristo … Mi ci sono messo anch’io; e ne ho approfittato per tentar di attaccare discorso con lui.

«Hai visto che roba? li gli ho detto. Ma lui mi ha voltato le spalle e se ne è andato senza dir parola. E tutto ciò per quella carogna di Marta! È un bravo ragazzo, Manet: ma è debole con le donne. Troppo debole! Non bisogna essere deboli; io lo so, signora, io me ne intendo.

Vedete, quando io ho la fortuna di trovarmi vicino ad una bella donna, come voi per esempio, io, che apprezzo la bellezza femminile, so anche parlare di ben altre cose che non siano le artiglierie o le battaglie. Credetemi, signora …

– Già, avete ragione: divago. Bene, andiamo avanti, Dunque, dicevo che Manet non mi ha rivolto la parola, né allora né poi. Ed io non ne potevo proprio più. Pensate, signora, abbiamo fatto tante battaglie e tante corbellerie insieme … Non mi andava giù quel silenzio. Ero di cattivo umore. Gli altri camerati se ne sono accorti. E mi chiedevano: «Che cos’hai, Chien­ Rousset?..». Mi chiamano tutti così; per via di questi capelli rossi e di questa faccia da mastino; ma io non me la prendo, perché io so stare allo scherzo. E poi, che posso farci se ho i capelli rossi? Tutti i Chénousset li hanno così. Se uno di noi – siamo cinque fratelli, signora …

– Sì, signora, tutti maschi, e tutti nell’esercito della Repubblica. Se uno di noi non avesse avuto i capelli rossi, mio padre avrebbe bastonato di santa ragione mia madre perché quello certamente non sarebbe stato un Chénousset. Ci teniamo noi, ai nostri capelli rossi. Pensate: mio nonno, che ha 74 anni, lo chiamano, su al paese, Soleil-Couchant, perché, sebbene sia tutto bianco, ha ancora dei riflessi rossi nei capelli, come il sole al tramonto …

– No, signora, mia madre non ha i capelli rossi; e mia nonna nemmeno, ma la razza dei Chénousset è forte e impone quel rosso a tutti, maschi: e femmine. E anche il muso rincagnato da mastino. Chien-Rousset, sicuro, 1i chiamano così. Anche voi, se volete, potete chiamarmi così.

– Come volete. I miei compagni mi chiedevano che cosa avessi. Credevano che fossi preoccupato anch’io per Massena. Eravamo tutti in ansietà per Massena, assediato a Genova, e del quale non si sapeva più niente. Ma io più che a Massena pensavo a Manet, a quel fottuto Manet, – scusate – che non mi rivolgeva più la parola. Dopotutto gli avevo detto soltanto: Manet, tu es cocu.

– Vi pare una cosa grave? Scusate, e vostro marito non si chiama forse-Mont-Cocu?

– Già: Montecucco. Ma è un peccato.

– No, no, non arrabbiatevi, signora. Scherzavo.

– Ma certo, signora, lasciamo in pace vostro marito. Non domando di meglio.

– No, signora, non divagherò più, state certa.

– No, signora, non mi ha più parlato; non ci siamo più riconciliati.

E questa è stata l’origine di tutti i miei guai!

Come vi dicevo, c’era una confusione tremenda. Nessuno capiva più niente. Di solito io mi interesso poco di quello che combinano gli alti comandi: vado dove devo andare, faccio quello che mi dicono di fare, e quando c’è da picchiare non mi par vero, Ma qualche cosa però vorrei capire anch’io. Invece là non si capiva più niente. Prima mandano Lannes verso Covasso, o Cavasso …

– Sì, forse sarà Chivasso. Lo mandano verso Chivasso, come dite voi, e verso Torino. «Là ci dev’essere qualche cosa» penso io: ma, poco dopo: dietro-front, lo chiamano indietro, e lo spediscono verso Milano, in direzione opposta. Vi dico: nessuno capiva più niente. Allora corriamo tutti verso Milano. Ma, dico io, se dovevamo andare a Milano, tanto valeva venir giù dal Sempione, che si faceva più presto. Vi pare?

– Milano? Sì, è una bella città. E che donne, perdio!

– No, signora, non me ne sono occupato; non c’era tempo. Ma credetemi; per quanto le milanesi possano esser belle, voi le battete tutte; io me ne intendo …

– Ma no, signora … Non si sente niente, vi assicuro. Ho l’udito fine, sento di qua il battito della vostra dannata pendola. State tranquilla.

– Ma certo, continuo. Dunque, un bel giorno – circa una settimana fa – arriva la notizia che Massena se ne è andato da Genova. Con l’onore delle armi, naturalmente, ma se n’è andato. A quella notizia Bonaparte è diventato matto! Non capiva più niente. Ancor meno di prima. E da quel momento si è messo in testa che Melas gli volesse scappar via senza combattere. Era una cretineria, signora; bastava pensarci un momento. Noi eravamo un po’ malandati per via del San Bernardo, e tutti sparpagliati per la Lombardia, correvamo un po’ di qua e un po’ di là, senza saper dove. Melas, invece, è un generale in gamba, vecchio ma furbo, ed aveva un esercito fresco e pronto. Per di più ora gli dovevano arrivare le truppe che aveva a Genova. Altro che scappare!

Ma Bonaparte aveva quell’idea fissa. Non quietava più e mandava le sue divisioni di qua e di là, per cercare gli Austriaci che secondo lui si volevano sottrarre alla battaglia. Manda Lannes verso Montebello, dove poi si è battuto, e Murat, il meraviglioso Murat, con la sua cavalleria, verso Piacenza. Che uomo, quel Murat! Già, prima di tutto un gran bell’uomo! Le donne vanno pazze per lui, tutte! Sono sicuro però che a voi non farebbe alcun effetto. È bello, sì, bellissimo, e quando fa una carica alla testa dei suoi cavalieri, è splendido. Ma è troppo … Come dire? Troppo teatrale. Ha la mania delle divise smaglianti. Sembra sempre in maschera! E poi non sa parlare. Figuratevi che tre o quattro anni fa Bonaparte lo ha mandato a portare una protesta agli aristocratici della Repubblica di Genova. Lo hanno ricevuto in gran pompa, in quel loro salone, con seggi, baldacchini, manti … .e Murat ne è stato intimidito. Lui che quando carica sembra un diavolo scatenato, è stato intimidito da quei quattro vecchi barbogi che hanno la gotta e parlano con la bocca a cul di gallina. Gli è sembrato di trovarsi davanti a qualche cosa di superiore, di imponente, di maestoso. Nella sala nessuno parlava, e tutti lo guardavano in silenzio. Doveva sentire nell’aria qualche cosa di antico, di ignoto: un mondo a cui forse non aveva mai pensato …

– Sì: lui aveva una divisa smagliante, certo. Ma era una divisa che si era inventato lui, per sua fantasia. Gli altri, quegli aristocratici che lo guardavano tacendo, avevano indosso dei vecchi costumi severi che prima erano stati portati dai loro padri, dai loro antenati, da secoli. Pareva che quei signori che lo guardavano senza paura e senza curiosità, fossero là, da secoli, seduti ad aspettare il cittadino Murat, con la sua divisa nuova, inventata da lui, per giudicarlo, senza dirgli nulla.

E lui deve avere avuto l’impressione che si prova quando il cavallo si ferma davanti ad un ostacolo ed arretra lentamente. Avrebbe dato certamente tutte le sue divise nuove, i suoi pennacchi, le sue frange ed i suoi galloni, per trovarsi alla testa di una carica di cavalleria. Invece era là; e ad onta della sua divisa variopinta, gli sembrava di essere nudo … Sì, nudo, e poco pulito. Ha balbettato poche parole senza senso, ed è uscito, con la sua inutile divisa, mentre gli altri lo guardavano sempre. In silenzio.

Ma non divaghiamo. Murat era stato mandato a Piacenza. Tutti in cerca di Melas, che Bonaparte non voleva lasciarsi scappare, e con cui voleva ingaggiare battaglia. Aveva assolutamente bisogno della battaglia, non poteva farne senza. Capirete: era venuto a posta dall’Egitto …

– Sì, signora, era in Egitto, a fare la guerra. Gli hanno detto che le cose in Italia andavano male; ed effettivamente l’anno scorso abbiamo preso delle legnate …

– Già, è vero; anche qui al Mont-Cocu, pardon, al.,

– Ecco, perfettamente, ora ricordo: al Cucco è arrivato l’eco della battaglia. Ma non vi hanno dato alcuna noia, vero? Mi sarebbe spiaciuto che qualcuno avesse osato venire a dar noia ad una donna come voi. Perché voi siete una donna veramente …

– Va bene, va bene, signora, proseguo. Bonaparte, dunque, temeva che Melas rifiutasse il combattimento. E continuava a farci correre su e giù per la pianura.

Quando, quattro o cinque giorni fa, è arrivato Desaix, abbiamo sperato che le cose si mettessero meglio, e lui facesse capire al Primo Console che Melas non poteva essergli scappato né aveva alcuna intenzione di sfuggirgli. Invece niente. Bonaparte gli ha dato due divisioni, quella di Monnier e quella di Boudet, e ha mandato in giro anche lui. Poi, poco dopo, ha richiamato indietro una divisione, quella di Monnier, lasciandogliene una sola. Vi dico: una incertezza e una confusione continue. Anche lui correva un po’ di qua e un po’ di là. Prima era a Stradetta …

– Stradella? Può darsi. Vi ho già detto che non ho memoria per i nomi.

Ricordo bene le persone; quelle sì. Specialmente le donne. Voi, ad esempio, non vi dimenticherei neppure tra cent’anni. Soprattutto non dimenticherei le vostre mani. Le riconoscerei infallibilmente. È difficile trovare delle mani come le vostre. Voi mi dite di non divagare, ma sacripante, come si fa con delle mani come quelle sotto il naso? Sono di una finezza meravigliosa. lo penso che un uomo, per essere accarezzato da quelle mani …

– No, no, non ve ne andate!. .. Perché vi alzate?!. ..

– Che cosa? Volete chiamare vostro marito? E perché? Ma no … lasciatelo dormire in pace … Non abbiamo bisogno di lui … – Sì, signora, state tranquilla. Sedetevi …

– Va bene … Continuerò il mio racconto. Mi date da bere? Grazie.

Dicevo?

– Già, era andato a Stradetta, a Stradella. Non sapeva dove battere il capo. Da Stradella, improvvisamente, è andato a Voghera; sempre in cerca di Melas, e sempre con la paura che costui gli scappasse. Poi, di nuovo, via di corsa, verso Alessandria, ma più sotto; in quella dannata pianura tutta piena di boschi e boscaglie; roba da far impazzire tutti gli esploratori del mondo.

– Già, la Fraschetta. Ma altro che frasche! Un ginepraio inestricabile dove tutto spariva. E pensate che io dovevo continuamente correre su e giù a portar ordini e contrordini, sempre con la ferma persuasione di battere il naso nei Tedeschi. Mi dicono che durante l’altra campagna proprio là in quella Fraschina, Fraschetta, hanno accoppato molti nostri soldati … Lo credo: vero posto da briganti I Ora io non avevo certo paura di un eventuale brigante: ma mi sarebbe seccato, dovendo portare un ordine, recapitarlo nelle mani di un ufficiale austriaco. Tuttavia, me la sono cavata. Tra i cespugli, le frasche, il fango e i sacramenti, ne sono uscito sempre.

– Sì, signora; anche i sacramenti ci vogliono in quelle circostanze: aiutano a cavarsi d’impaccio I Bene: Bonaparte arriva e si stabilisce in un paesetto che si chiama Torre … Torre … Torre con qualche cosa attaccato che non ricordo. Ma perché in questa dannata contrada ci sono tanti paesi che si chiamano Torre, con qualche cosa attaccato? E se non si chiamano Torre si chiamano Castello, con qualche cosa attaccato. Oppure Villa: Villa di qua, Villa di là, Villa dappertutto. Ora è facile ricordare Villa. Ma io non riesco mai a ricordare quello che c’è attaccato, prima o dopo. Villalunga, Cortavilla, Villastorta, Drittavilla. Una maledizione. Bonaparte si stabilisce a questa Torre, e, sempre per la paura che Melas gli scappi, manda subito via Lapoype …

– Sì, signora, Lapoype: è un nostro generale, molto in gamba. Lo manda con le sue divisioni verso il Po, non so bene dove; ma lontano. E poi manda via anche Desaix. Gli aveva già tolta una delle sue divisioni e poi manda via anche lui, con la divisione di Boudet. Così si priva del miglior aiuto: e qui è stato il suo più grande errore. Questo ve lo dico io, signora!

Ora gli Austriaci sono lì, a due passi, ma lui non lo sa e manda a cercarli in giro. Gli viene, chissà come, l’idea di mandare Gardanne a fare una puntata verso Marengo, e Gardanne picchia dentro gli Austriaci, ma siccome quelli si ritirano subito (ed è stata una finta bellissima, in cui Bonaparte è caduto in pieno!) Gardanne si ferma a Marengo, e Bonaparte si persuade sempre più che ad Alessandria non c’è più nessuno, che quei soldati non sono che un avanzo lasciato lì per romperei un po’ gli stivali e che il grosso di Melas è lontano, chissà dove! Tuttavia Victor manda una ricognizione verso Alessandria. Quelli infatti vanno, e non vedono niente. Bonaparte allora pianta lì tutti e se ne parte per Voghera. Victor e Gardanne vanno a dormire; ma non dormivano gli Austriaci …

E neppure io, signora, ho dormito molto, quella notte …

La mattina dopo mi mandano da Victor a vedere come sono andate le cose. Tutto bene, tutto tranquillo. Ma proprio mentre sto per tornarmene indietro – erano circa le otto – e già penso di ritrovare Manet, sento una sparatoria infernale dalla parte di Gardanne. Gli Austriaci attaccano in pieno. Torno di corsa a quella Torre. Ma tutti sono tranquilli. Non c’è nulla da temere, dicono: si tratta di una finta degli Austriaci, per tenerci impegnati e dare tempo a Melas di salvarsi col grosso.

Altro che scappare, signora! Mentre torno al galoppo a Marengo sento perfettamente che la battaglia si è estesa. Sapete, signora, la battaglia è come il fuoco: attacca in un punto e poi dilaga tutt’attorno. Trovo che Gardanne ha dovuto indietreggiare. Tuono di Dio! Che cosa succede? La Centouno ha fatto miracoli ma è fracassata; la Quarantaquattro resiste ancora ma ripiega. Fortunatamente c’è lì quel fosso pieno di fango e di acqua che non so più come si chiami …

– Si, il Fontanone, che trattiene un po’ gli Austriaci. Ma quelli ci hanno giocati in pieno. Sono stati quieti quieti in Alessandria, ci hanno lasciato manovrare, e sparpagliare ben bene, e poi, addosso! Sento Victor che grida: «Se riescono a passare il fosso, siamo fottuti!». E mi spedisce da Rivaud che comandava la Quarantaquattro, a dirgli che, se passano, siamo fottuti. Rivaud fa miracoli. Ed è stato anche ferito, povero Cristo: una brutta ferita, non se la caverà.

Mentre torno indietro vedo Kellermann che carica. Perdio! Laggiù sono riusciti a passare. Ma forse Kellermann li ferma! E poi sento sparare anche più su, dov’era Lannes: hanno attaccato anche là: finalmente lo abbiamo trovato Melas! Proprio quando non ce l’aspettavamo!

Gli eserciti francese ed austriaco schierati per la battaglia di Marengo
(M. De Norvins – Histoire de Napoleon – Tome second – Furne, Libraire-Editeur – Paris 1834)

Sono appena tornato e dico che Rivaud resiste, quando arriva un altro a dire che Rivaud è ferito e che ripiega anche lui. E poi, dopo, un altro ed un altro ancora, con notizie sempre peggiori; tutta la linea indietreggia. Quei Tedeschi hanno un fottio di cannoni, e sotto quella protezione, i granatieri di Melas hanno preso Marengo. Chambarlhac, che ha preso sulle corna tutte quelle cannonate, ha dovuto mollare anche lui. E poi ecco che anche Lannes molla. A un certo momento mi trovo lassù sulla destra, verso un posto che si chiama Castel con qualche cosa attaccato e dico tra me: «Siamo fottuti. Tra poco li avremo qui». E carico le mie pistole pensando a quel porco di Manet che non si fa vivo. Rischiavamo di essere presi come topi, signora: sicuro, come topi. Queste cose le potete capire anche voi, sebbene non abbiate mai visto una battaglia da vicino.

Fate conto che qui alla sponda del letto alla mia sinistra ci sia il Fontanone. Soltanto quel maledetto fosso non è così diritto: è tutto storto e curvo. Bene, qui c’è il Fontanone, dove c’era Victor, con Chambarlhac, Gardanne e Rivaud. Qui, proprio all’osso del mio fianco, c’è Marengo, dove Gardanne aveva potuto ripararsi, dopo aver mollato la sponda del letto, cioè il Fontanone. lo ero là, dal mio piede sinistro, a quel Castel con qualche cosa attaccato, dove c’era Monnier. E lungo la mia gamba sinistra c’era Lannes. Ora, quando vedo che Lannes cede a poco a poco, e arriva fino alla mia gamba destra, e sento che Charnbarlhac qui sulla mia pancia è stato schiacciato in pieno – pensate signora, la Ventiquattro, la Quarantatre e la Novantasei, completamente distrutte! – io penso che per poco che Lannes molli e quelli avanzino, tagliano fuori il mio piede sinistro, dov’ero io, e non c’è più niente da fare. Proprio mentre caricavo le mie pistole, ci dicono che Bonaparte, che finora era sempre stato a quella Torre (che è laggiù, a destra del letto, verso il muro) a grattarsi le ginocchia, e a pensare dove poteva essere Melas, il Primo Console, dico, era venuto qui all’altezza del mio fianco sulla sponda del letto, a San Giuliano. E questo nome lo ricordo perché il mio secondo fratello si chiama Giuliano. Ma ormai c’era più poco da fare. «Siamo fottuti li dico tra me». Fortunatamente arriva la Guardia che si mette in quadrato qui, dal mio ginocchio destro, appena in tempo per fermare la cavalleria tedesca che arrivava qui attraverso il mio stinco sinistro. Ma ormai era finita. La battaglia di Marengo era perduta. Perduta. Irrimediabilmente perduta. Ci vuoi poco a capirlo. Noi non dovevamo mollare la sponda e invece verso mezzogiorno ci trovavamo già oltre la metà di questo letto. Monnier lassù dai piedi. La Guardia Consolare tra il ginocchio e il piede destro; Lannes lungo questa gamba destra; e qui sulla pancia fino allo stomaco, Victor con gli avanzi delle sue divisioni. Un disastro. Monnier mi manda di corsa a San Giuliano a dire che le cose vanno male, che lui lassù ai piedi non può ‘tenere se qui alla gamba continuano a mollare. A San Giuliano c’era quella confusione infernale che c’è sempre ai comandi durante una battaglia. Tutti gridano e nessuno capisce più niente. E qui trovo Manet, che stava stringendo la sella del suo cavallo.

«Manet — gli dico – siamo fottuti li. Ma lui continua a stringere la sella.

In quel momento ci chiamano, tutt’e due, Manet e me. Bene, penso.

Tutt’e due dobbiamo andare, ventre à terre, cavalli freschi, a portare a Lapoype l’ordine di correre qui.

Si capisce, penso: Lapoype proteggerà la ritirata, ormai non c’è altro da fare, se non vogliamo farci massacrare tutti. Bene! Lapoype? Dov’è Lapoype? Mi danno una filza di nomi di paesi: qualche Torre, qualche Castel e una Villa. Bene: questo lo ricordo. E poi costeggiare il Po; il Po? Sì, il grande fiume. Bene: quello lo trovo di sicuro; e poi, perdio, c’è Manet, e con Manet non ci si perde! Avanti a cavallo a cercare Lapoype!

Ebbene, signora, in quel momento – era circa un’ora dopo mezzogiorno – io ho avuto la più grande gioia e subito dopo il più grande dolore della mia vita. Partivo di nuovo con Manet; col mio grande amico Manet, e Manet ed io, insieme, andiamo in capo al mondo. E poi, subito dopo, mentre galoppiamo come dannati per la strada, e grido a Manet: «Manet, ti ricordi bene i paesi? Quella Torre, quella Villa?»… Manet non si volta e non mi risponde.

Pensate, signora; in quel momento, proprio mentre il nostro esercito, i nostri soldati, le belle divisioni della Repubblica, andavano tutte a farsi fottere, e Bonaparte Primo Console era sconfitto a Marengo, e gli Austriaci ci stavano addosso, ed ancora non si poteva capire quali sarebbero state le conseguenze di quella sconfitta, e occorreva chiamare subito Lapoype, perché almeno proteggesse la nostra ritirata, e la sconfitta non si mutasse in un disastro: in quel momento ancora, signora, Manet non mi rivolgeva la parola.

 «Manet, Manet – gli grido – non fare il cretino: dobbiamo cercare Lapoype, vieni qui, aspettami: imbecille, idiota! Manet, vecchio mio!».

Ma Manet non mi risponde e ad un tratto esce dalla strada che faceva una curva, scarta da un lato e si slancia nella Fraschina al galoppo senza farmi un segno, niente!

Signora, voi sapete benissimo che quando si va in due a portare un ordine, ognuno deve andare per conto suo, senza curarsi dell’altro; e ne mandano due appunto per questo, perché almeno uno arrivi. Ma tra me e Manet non è mai stato così. Noi siamo sempre andati insieme. Ed ora mi pianta, ed io mi slancio dietro a lui, e grido e sbraito: «Manet, Manet, perdio, che tutti i sacramenti ti stramaledicano …» e cerco di non perderlo di vista e di stargli alle reni, ma lui, becco fottuto, sparisce in quella maledetta e porca boscaglia ed io resto ad arrabattarmi in quel ginepraio schifoso, e penso che Manet è un porco, e cerco di ricordarmi i nomi di tutte quelle maledette Torri e Castelli e Ville, e soprattutto di quella Villa da cui dovevo assolutamente passare, e mi chiedo se riuscirò mai più a ritrovare Lapoype, che se per caso si perde anche Manet, e Lapoype non arriva a proteggere la ritirata, nasce un imbroglio infernale, e tutto ciò per colpa di quella carogna di Marta, carogna, carogna, carogna!

– Ma no, signora, non grido! Ma sì, parlerò più piano, e se poi vostro marito si sveglia me ne infischio, perché voi non capite che cosa voglia dire trovarsi come mi trovavo io, in quella boscaglia fetente, abbrutito dal fango, senza più ricordarmi di che Villa si tratti. E arrivo così al fiume, a un fiume che non sapevo se fosse il Po, perché mi pareva più piccolo di come l’avevo visto prima. «Ma forse – dico – è perché ha cessato di piovere. Questo però potrei passarlo benissimo …» È il Po? Non lo è? Che cos’è? E chi ce l’ha messo qui questo fiume? E nessuno per chiedergli che accidente di fiume può essere! Però, penso, i fiumi vanno tutti nella medesima direzione; se non è il Po, va certo bene egualmente; ma devo andare in su o in giù? Trovo una casa! Scendo. Quei cretini non capiscono nulla. Domando se hanno visto passare un ufficiale a cavallo, Manet. Mi dicono che ieri ne hanno visto più di mille. Mi metto a tirar calci e pugni per far capire qualche cosa. Accorre un uomo con un forcone. Cerco di darmi l’aria tranquilla e sacramentando come un turco, dico, sorridendo (e potete capire che voglia avevo di sorridere):

«Sentite, buona gente» … e tiro fuori le pistole. Sentendo parlare in italiano si calmano. Domando di Villa … Villa … “C’è qui un paese che si chiama Villa con qualche cosa attaccato?».

«Sì, di là», mi fanno un segno, ed io dò un calcio in fondo alla schiena a quello del forcone, per fargli capire che ho capito, monto a cavallo e via. Dove sarà quel becco di Manet, e dove sarà quel cammello di Lapoype? Almeno arrivasse Manet, in tempo. Vado, vado, incontro paesi, con dei nomi che non capisco, trovo una strada, mi metto per quella pensando che arriverà pure in qualche posto, e mentre galoppo come un disperato il cuore mi si apre perché vedo della cavalleria che viene verso di me. Mi fermo. Mi viene un accidente! Savaryl Savary è l’aiutante di Desaix! Come mai è qui?!. .. Dove sono venuto a finire?..

Savary mi domanda dove vado. Non posso quasi parlare. Gli dico che i Tedeschi hanno sfondato, che tutto è perduto, che siamo battuti in pieno, che l’esercito della Repubblica sta sbandandosi, che cerco Lapoype per proteggere la ritirata …

«E tu sei venuto qui a cercare Lapoype??!!…» e mi copre di insulti. Mi dice che sono una vecchia carogna ed ha perfettamente ragione, perché un ufficiale che porta un ordine come quello non deve perdere la strada. E poi fa fare dietro-front ai suoi, ed io capisco che corre a portare la notizia a Desaix, che deve essere da quelle parti. Ma che cosa può fare ormai Desaix, che non ha più che una divisione, perché l’altra gliel’hanno soffiata via? Come può proteggere la ritirata? Ci voleva Lapoype, Lapoype, perché Lapoype era laggiù, oltre i piedi del letto, vicino alla finestra; perciò se gli Austriaci, passando sulla mia pancia, arrivavano alla sponda destra del letto, Lapoype, arrivando lì ai piedi, li prendeva sul fianco o alle spalle ed impediva che massacrassero i nostri. Capite? Ed io invece ero arrivato da Desaix, che era qui, a destra, vicino al muro, perché quello non era il Po, ma lo Scrivia, e lo Scrivia va in su mentre il Po va in giù! E Savary mi carica di ingiurie e mi dice di galoppare per di là, e mi fa un segno, e mi dice che intanto poi mi fucileranno egualmente; ed io me ne infischio che mi fucilino; ma penso che intanto c’è più poco da fucilare coi nostri che scappano via come lepri, e penso che invece i Tedeschi mi acciufferanno e questo, tuono di Dio, non lo voglio, e vado, e continuo ad andare in quei boschi, e non capisco più niente e non trovo più lo Scrivia, perché, scendendolo, sarei arrivato al Po, e mi accorgo che viene sera, e dalla rabbia dò una spronata al cavallo che fa uno scarto, e con due zampe sprofonda in una buca, ed io vedo un tronco d’albero che vola verso la mia testa ed invece ero io che volavo verso di lui …

– Sono calmissimo, signora, vi assicuro. Datemi da bere.

– Grazie. E poi, ormai tutto è finito. Finito l’esercito repubblicano,

finito il Primo Console. Forse mi fucileranno, ma più probabilmente sarò preso dai Tedeschi.

– Non lo so, signora, non lo so. Ho battuto la testa e non ho visto più niente. Fortuna che i Chénousset hanno la testa dura, signora. E poi ero disteso su una strada e c’era una carretta e tre uomini intorno al mio cavallo che aveva due gambe rotte. lo gridavo, ma loro guardavano il cavallo.

– Mandrogni? Che cosa vuol dire, signora?

– Li mangiano? Mangiano i cavalli? Oh, porci! Ora capisco perché quando ho detto loro di prendersi il cavallo mi hanno caricato sulla carretta. Ho vomitato, ho dormito, non lo so: poi sono venuto qui. Ma non m’importa di niente, di niente, perché è finita. Tutto è finito I Forse Manet è riuscito a trovare Lapoype, ma anche Lapoype che cosa poteva più fare? Non c’era più niente, signora, era finito. Ed è colpa mia. Sì, signora, è colpa mia, perché in guerra è così. Lapoype non avrebbe più potuto far niente, ma io dovevo trovarlo; il messaggero non è arrivato: ha perso la strada: è lui che ha fatto perdere la battaglia! La storia si scrive così, signora! Sono io che ho rovinato tutto, che ho massacrato tutti, che ho tradito tutti! Meglio i Tedeschi! Meglio capitare tra i Tedeschi, e finire, finire! Perché Manet… Dio lo fulmini Manet e la sua carogna! Lapoype … Signora sono io che …

– Grazie, grazie. Che cosa è? Ghiaccio? Solo acqua fresca? Grazie, signora. Fa bene, sì. Forse ho la febbre. Grazie. Ma non levate la vostra mano. signora. Anche la vostra mano. Grazie, signora.

– Non ve ne andate, signora.

E Rosina sedette ai piedi del letto, presso al catino in cui si inzuppavano i pannolini.

Da “Il regalo del mandrogno” di Pierluigi e Ettore Erizzo – Edizioni Araba Fenice, Boves ISBN 9788886771108

Per chi volesse una descrizione storica (certamente meno romanzata) della battaglia e fosse tanto coraggioso da affrontare un testo in francese, qui di seguito viene riportata la parte di una monumentale e dettagliata biografia di Napoleone quasi coeva (1834) e comunque molto vicina agli eventi di cui si occupa. L’estratto (l’opera intera occupa 4 volumi) riguarda proprio la battaglia di Marengo, i suoi presupposti e i suoi esiti


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