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Scambi culturali : le scuole medie

(di Lorenzo Bisio)

Scambi culturali : le scuole medie

Classe sezione  B, 
il nostro amore  (io e il dialetto) è cominciato lì.

Questa frase, ricavata da un mio libero adattamento di “Lisa dagli occhi blu” di Mario Tessuto, seconda classificata al Disco per l’Estate del 1969, dietro “Pensando a te” di Al Bano, sintetizza quello che fu il triennio alle scuole medie.

Per me gli occhi blu non erano quelli di Lisa ma di Mitzi e speravo ardentemente di finire con lei, visto che le classi erano miste,  e con  tanti  altri miei ex compagni delle elementari.

Invece a  fine settembre ecco la doccia fredda; io, Angelo Rolandini e Walter Daffunchio, unici fra tutti i componenti della mitica “clase id feru”, eravamo finiti, anzi dirottati dalla sezione A alla sezione B, per mancanza di allievi.

Fu uno vero e proprio  shock, perchè non conoscevo nessuno e dovevo tagliare il cordone ombelicale con quelli che erano stati i miei compagni di avventura fin dai tempi dell’asilo.

Eccola qui la maledizione di Nino Ferrer !

Poiché ero e sono tuttora stonato “ ’n mè na gaba ” non mi aveva perdonato di avere canticchiato  in maniera maldestra, l’estate precedente,  una sua famosissima canzone; per punizione mi fece finire in classe “n’ cu quei de Stasan” (quelli di Stazzano),  suo paese d’origine, diviso da Serravalle dal ponte sul fiume Scrivia.

Con una caratteristica che attraversava, quasi fosse genetica, tutta la popolazione  : la lingua ufficiale non era l’italiano ma il dialetto.

Io il dialetto lo capivo  perfettamente, perchè i miei genitori così si esprimevano in casa quando conversavano  fra di loro, e poi avevo nel mio background gli anni passati al “Bufè da stasion”, ma non lo sapevo parlare, accidenti !

Fu così che, unico per quei tempi in Italia, dovetti imparare, già alle medie,  non una ma due lingue straniere : quella istituzionale,  il francese,  prevista  dall’ordinamento scolastico, e il dialetto, indispensabile per interagire con i miei nuovi compagni di classe.

Era il banco di prova per essere ammessi nel loro cerchio magico, un rito di affiliazione che non faceva sconti a nessuno, pena l’emarginazione totale.

Ecco perché io parlo, con ironia,  di “scambi culturali” : attraverso l’apprendimento del dialetto  riuscii a farmi accettare  a pieno titolo da  quella comunità chiusa che mi guardava con diffidenza e  mi giudicava con  un certo disprezzo.

Il motivo di questo atteggiamento era essenzialmente uno: io ero un secchione, mentre per loro la frequenza era un obbligo (interpretavano alla lettera la definizione “scuola dell’obbligo”)  e non un piacere.

Molti  passarono i tre anni “a scaldare” il banco”, tanto prima o poi li avrebbero  dovuti comunque promuovere  per sfinimento.

La classe era anagraficamente variegata, in quanto, per pregresse bocciature alle elementari di Stazzano, ad opera della maestra  Daglio Clotilde Daglio  (da signorina e da sposata) di Vignole Borbera,  al nucleo base costituito  dai nati  nel 1960  si affiancava un quintetto del  1959 e addirittura due soggetti  del 1958.

Ecco nel dettaglio  l’invincibile armata !

Partendo in alto da sinistra : Rita Olivieri, Lucia Alice, le due gemelle Baretto, Angela e Antonella, ? Cavo “Guzman”, Maria Luisa  Alloisio.

Al centro : Massimo Allegrotti “Scarpantibus”, Silvia Asborno “Savon”, Maria Teresa Cartasegna “Curesa”,  Marina Stevani, Marina Morelli, Pierangelo Ercole “Pepi”.

Seduti :  Fulvio Moncalvo “ ei Bacilu 1”,  io “maistru stantiu”, con una impresentabile pettinatura alla Austin Power,  la professoressa Maria Pia Bracco, Claudio Stevani “Salacheta”, poi abbreviato in età adulta in “Sala”,  Angelo Rolandini “Rola”, Walter Daffunchio “Daffy Duck”.

Accosciati : Lino Raineri,  Mauro Moncalvo “ei Bacilu 2”, Piero Pellegrino “Pierein”, Agostino Cosso.

Così,  per la precisione, il mio soprannome “maistru stantiu” (letteralmente maestro stantito), me lo aveva messo su  Claudio Stevani, in quanto non sopportava che sapessi tutto e rispondessi a tutte le domande.

Lui invece era soprannominato “Salacheta” per via del fisico non proprio esile, dovuto anche alle “slepeghe id fugasa stiò id Felice” che  ad ogni ora mangiava a scuola.

Ironia del destino è poi diventato uno dei miei migliori amici con il quale ho condiviso in gioventù delle indimenticabili vacanze al mare in Spagna,  a Sitges, dove, fra sbronze e avventure amorose (lui le chiamava “bughè”),  coniò la frase, che rimarrà  per sempre scolpita nella mia mente “a  n’è miga u diovu ………. l’è so frè”  allorquando mi presentò al pub “Pachito”  una donzella di Barcellona, che non era proprio Miss Mondo, ed io feci una faccia perplessa, senza proferire  però alcun commento.

Per quanto riguarda i professori, erano inversamente proporzionali alla classe,  tutti personaggi di altissimo livello  !

La signora Bracco, insegnante  di italiano, storia, geografia  e latino (materia allora facoltativa), era uno scricciolo  dalla corporatura minuta,  con due occhi azzurri che bucavano  e un sottile filo di voce.

Ciononostante, quando teneva lezione non volava una mosca, tanta era la sua cultura e la sua capacità di interessare noi alunni, anche quelli più riottosi e indisciplinati.

Per inciso, era la moglie del professor Conzano, che insegnava le stesse materie nella sezione A, una famiglia dove si mangiavano a pranzo e cena D’annunzio  e Cicerone.

Di matematica si avvicendarono  nel corso del triennio la signora Rigattieri (andata in pensione dopo un anno) e il signor Aragone; due persone diametralmente agli opposti.

Lei era un donnone che quando il livello di casino superava la  sua soglia di tolleranza, non esitava a prenderti per le orecchie e darti uno sganassone, lui era un incallito fumatore, perennemente afflitto da emicrania, che quando la situazione degenerava, senza alcun preavviso, appioppava una nota sul registro  a tutta la classe e fine della Genova – Nizza !

Completava  il trio delle meraviglie la signora Ruggiero l’insegnante  di francese, proveniente dalla Campania,  un tipo veramente tosto ed autoritario che metteva soggezione a tutti.

Ma con lei gli stazzanesi avevano qualche chance in più, visto che il dialetto contemplava espressioni e vocaboli mutuati direttamente dalla lingua  francese, tipo tumate (pomodori), sitron (limone), custipasion (raffreddore), etc.

Il roster era completato dalla professoressa di disegno, marchigiana di origine, coniugata con il mitico professore  di ginnastica Gian Patri, dalla signora Lenti di musica e  dai  due insegnanti di applicazioni tecniche (i primi due anni il signor Dova e il terzo anno il sig. Bianchi).

La professoressa di disegno era di una bellezza sfolgorante,  mentre il marito non era proprio Alain Delon.

Ma aveva il grande merito di avere fondato, insieme a Mario Titolo ed Ezio Morando, figlio  di “Carletein  di pesi”,  delle omonima pescheria, la società di basket, mixando un manipolo di vecchie lenze arquatesi, come Antinori, il “Quighe”  Ballestrero,  Ivo Pesce (gran tiratore da tre punti quando ancora la regola non esisteva), con un gruppo di cestisti locali, Pino Pontiggia, Roberto Stevani, mio cugino Piergiorgio Bisio detto “il Provolo”, Gabriele Bosio “la Jena” e Sandro Martellato “lo Squalo”, inserendo infine, pian piano, una manciata di talenti autoctoni  in erba, soprattutto del 1961, tra cui ricordo  i più rappresentativi,  Gino Oliviero, Roberto Mantero, Guglielmo Bosi, Fabrizio Bovone.

La  povera professoressa Lenti, per tutti “nonna Abelarda”, visto che aveva non poche primavere sulle spalle, era il nostro bersaglio preferito; dalle puntine da disegno nascoste sulla seduta della sua seggiola,  alle mitragliate di chicchi di riso, sparati con delle cerbottane rudimentali, ricavate  togliendo il refill alle penne biro  Bic, per lei non c’era mai un attimo di pace.  

Per non parlare di quando provava a farci cantare qualche canzone !

Tutti si impegnavano a stonare al massimo e nelle pause tra una strofa e l’altra, partivano  le “puzzette artificiali”,  vera specialità dei miei compagni stazzanesi.

In cosa consistevano ?

Innanzitutto occorreva umettare  con la saliva il taglio della mano fra pollice e indice, poi piazzare la mano sotto l’ascella nuda e muovere  ritmicamente il braccio dall’esterno verso l’interno.

Si generava un rumore molto simile a veri e propri meteorismi intestinali, che facevano  scompisciare dalle risate tutti noi e incazzare a bestia lei.

Con i 2 professori di applicazioni tecniche andava meglio, perché,  consapevoli che le loro ore di servivano per rilassare le nostre menti dopo le impegnative lezioni di italiano, matematica e francese, non ci stressavano più di tanto, anzi cercavano di coinvolgerci in esperimenti e creazioni divertenti.

Come esperimento ricordo quello sul calcolo delle probabilità, lanciando innumerevoli volte in aria delle monete da cento lire e annotando minuziosamente sul quaderno quante volte usciva testa e quante croce.

Fra le creazioni ricordo  invece  con entusiasmo una lampada da scrivania ricavata svuotando e sagomando un noce di cocco, perfettamente funzionante.  

Col tempo, anno dopo anno,  ero ormai un fine cultore del dialetto, il che mi aprì le porte del “Rotary” stazzanese, diventando il beniamino di Stevani “Salacheta”, che passò ad un più confidenziale “Lory” come soprannome.

Insieme architettavamo delle  “bischerate” assurde, da far impallidire quelle di  di “Amici miei” di Monicelli.

Su tutte ne rammento tre.

Alla professoressa Viterbori, supplente di francese, che aveva sposato il titolare del negozio di abbigliamento Misia, in quel di Gavi, per ripicca verso una  sterminata serie di insufficienze inflitte a tutta la classe, turammo il tubo di scappamento della macchina con della carta, completando l’opera con dello stucco, per sigillare bene il tutto.

Quando provò a mettere in moto, si udì un botto micidiale,  come se fosse esplosa una bomba.

La seconda fu ancora più esilarante.

Siccome per accedere alle scuole medie, in cima alla  salita dei Cappuccini,  occorreva,  al termine di una breve scalinata,  oltrepassare un lungo cancello altro si e no 1 metro e 50 centimetri, pensammo bene di richiuderlo con un lucchetto obbligando così le fanciulle a scavalcare.

E noi coricati a  terra, come dei marines,  nella speranza di intravvedere “il paradiso” sotto le loro gonne !

L’ultima impresa, che rischiò di mettere in dubbio l’ammissione all’esame finale di terza media, fu quella di tentare di sfilare le calze  autoreggenti (allora simbolo di seduzione, come nel film “Malizia” di Salvatore Samperi, del 1973,  nella  celebre scena con l’attrice  Laura Antonelli) a Rita Olivieri, che era già avanti con gli anni ma anche come “outfit” scolastico.

Mentre tutte le compagne  indossavano gonne al ginocchio e calzettoni antistupro, lei, che aveva un fisico niente male, indossava con disinvoltura la minigonna e le calze in nylon.

E a noi maschietti il testosterone saliva a palla !

Ce la cavammo per il rotto della cuffia, perché lei, che in fondo all’animo, ma proprio in fondo in fondo, ci voleva bene, sottoposta ad interrogatorio di polizia in presidenza, alleggerì  di molto la  nostra posizione, derubricando l’accaduto a  un semplice scherzo goliardico.

Arrivarono  finalmente gli esami e mentre io  già pensavo a quale istituto superiore frequentare in seguito, nella prosecuzione degli studi, i miei compagni di Stazzano erano concentrati su due obiettivi più a breve termine : andare a lavorare, per guadagnarsi “u stipaindiu” e rendersi economicamente autonomi dai genitori, e farsi regalare per la promozione la moto da cross o il Ciao, già adocchiati nel negozio di Campastro, sito in via Berthoud  a Serravalle.

Andò tutto a gonfie vele, loro  tutti promossi ed  io, secchione dei secchioni, uscii con tutti “ottimo”, con somma gioia di mia madre e completo disinteresse di mio padre che, fermato in paese  da un conoscente, alla domanda : Con che voti è uscito tuo figlio Lorenzo agli esami di terza media ?”, rispose con disarmante nonchalance : “perché ug’ avaiva i esami ?”  

Papà di altri tempi, altro che adesso !