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SERICANO, Romolo

Romolo Sericano (di Pasquale Sericano e Maria Vigliocco / Caluso, Cuneo, 6 luglio 1922 / Stratford on Avon, Regno Unito, 18 marzo 1944)

Operaio, Soldato di fanteria, morto in prigionia nel Regno Unito

Il 30 giugno 1983, con una pubblica cerimonia, civile e religiosa, la comunità di Serravalle riabbracciava le spoglie mortali di Romolo Sericano, uno dei numerosi soldati italiani catturati dagli Inglesi nel corso della Campagna d’Africa, concentrati in campi di prigionia allestiti nel Regno Unito e nei diversi paesi del Commonwealth Britannico dai quali purtroppo molti non fecero ritorno, spoglie restituite, dopo quasi quarant’anni di silenzio, all’affetto della sua famiglia. Romolo Sericano, figlio di Pasquale Sericano, operaio e di Maria Vigliocco, casalinga, nacque l’8 luglio 1922, a Caluso, nel Cuneese, e fu residente a Serravalle. Di umili condizioni economiche, trovò occupazione come operaio. Durante la 2° Guerra mondiale venne richiamato alle armi il 26 gennaio 1942. Servì come soldato nel 27° Reggimento Fanteria, 3° Battaglione, 10° Compagnia P.M. Caduto prigioniero degli inglesi, il 15 luglio 1942, nel deserto dell’Africa orientale italiana, in località non nota, venne internato nel campo inglese per prigionieri di guerra nr. 31, in Gran Bretagna.

Il campo nr. 31 si trovava in Inghilterra, nella regione delle Midlands Occidentali, nella contea del Warwickshire, nella città di Stratford on Avon, nel villaggio di Newbold Upon Stour, allestito nei terreni adiacenti il parco dell’antica dimora di Ettington Park (nella foto sopra, tratta dal sito web www.ourwarwickshire.org.uk). La struttura di detenzione era classificata come campo di lavoro, orginariamente destinata ai prigionieri tedeschi. Il rapporto di un’ispezione al campo effetuata dalla Croce Rossa Internazionale, datato 30 dicembre 1943, riporta che il campo ospitò fino a 800 prigionieri italiani. Distanti dal campo principale c’erano un certo numero di ostelli di lavoro tutti apparentemente provvisti di alloggio in baracche. Nel novembre 1945, probabilmente il campo ospitò solo prigionieri di guerra tedeschi e continuò a farlo almeno fino al febbraio 1948. Romolo Sericano vi morì il 18 marzo 1944 e vi trovò prima sepoltura, lasciando a Serravalle i genitori e le sorelle Teresina e Carolina, che nulla più seppero di lui.

Come ricostruito da Mauro De Vincentiis, in un articolo pubblicato dalla rivista “Patria Indipendente“, del febbraio 2013, alla fine della campagna d’Africa, nel maggio 1943, gli Alleati avevano circa 250.000 prigionieri. I cosìdetti “P.O.W.” (Prisoners Of War), ovvero nemici catturati negli anni precedenti erano stati distribuiti in giro per il mondo: Stati Uniti, India, Australia, Kenya, Tanganika, Sudafrica, Rhodesia, Nyasaland, Giamaica. Il fabbisogno di manodopera in Medio Oriente e in Nord Africa aveva portato anche alla creazione di campi in Iraq, Iran, Egitto e Palestina. «…Circa 15.000 prigionieri italiani erano stati ceduti ai francesi e avviati in Algeria e Marocco. Una buona parte di italiani era stata però trasferita in Gran Bretagna, dove avrebbe vissuto una delle esperienze di cattività più lunghe e complesse, e allo stesso tempo dimenticate, della Seconda guerra mondiale. Infatti è ancora quasi del tutto ignorato che oltre 155.000 italiani furono detenuti in Gran Bretagna e che il governo inglese si rifiutò di rimpatriarli, anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, e persino dopo la fine del conflitto: la maggior parte rientrò in Italia nel 1946 inoltrato. Nel quadro di una prigionia che restò materialmente buona, si aprì il periodo più difficile della cattività degli italiani in Gran Bretagna: strumentalmente non giudicati in grado di tornare al fronte per combattere, questa volta dalla “parte giusta”, furono trattenuti perché più utili come manodopera, impiegata, nonostante l’assenza di un accordo con il governo italiano, anche in compiti connessi allo sforzo bellico. Neanche l’arrivo a Londra di un rappresentante diplomatico, proveniente dalle file dell’antifascismo storico, riuscì a far cambiare idea ai britannici relativamente allo status degli italiani, che rimasero prigionieri, assu-mendo però altre identità, quali quelle di cobelligerante e cooperatore. E, tuttavia, la cooperazione non fu una scelta scontata o automatica: i prigionieri italiani si divisero di fronte a questa prospettiva: le motivazioni addotte a favore di una scelta o dell’altra furono molteplici, da ricondurre all’interno di un’analisi complessiva sulla “scelta” degli italiani dopo l’8 settembre. Anche la fine della guerra in Europa non comportò alcun cambiamento per gli italiani in Gran Bretagna che furono costretti ad attendere molti mesi prima del rimpatrio. Le condizioni psicologiche di quegli uomini, alcuni prigionieri dai tempi della guerra d’Etiopia, peggiorarono con il passare dei mesi e furono aggravate dalla sensazione che l’Italia non desiderasse il loro ritorno.  Difficile, a quel punto, fu lo “happy end”, consistente da un lato nel ritorno di gran parte dei prigionieri, rimasti tali fino al momento della partenza; dall’altro, nella scelta, fatta da una piccola parte di ex prigionieri, di restare in Gran Bretagna, dove con il tempo, nonostante i divieti, avevano trovato amicizia e affetto o, più semplicemente, un lavoro…».

La storica Isabella Insolvibile, nel saggio “Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946)”, così descrive la realtà vissuta dai numerosi soldati prigionieri italiani, come Romolo Sericano, catturati dagli inglesi in Africa nel periodo 1941 – 1943 e concentrati in circa 200 campi, in centinaia di “hostels” e di fattorie, del Regno Unito: «….trasferiti nella madrepatria britannica perché ritenuti, a differenza dei tedeschi, non pericolosi per quanto riguardava la sicurezza interna, innocui da un punto di vista politico, incapaci da un punto di vista militare, ma adeguati a rimpiazzare la manodopera autoctona nelle tenute agricole britanniche, gli italiani vissero in Gran Bretagna una cattività che, da un punto vista strettamente materiale, può essere considerata «buona». Furono ben nutriti, ben alloggiati, curati; svolsero un lavoro retribuito e sicuro, ebbero la possibilità di istruirsi e di svagarsi. Ciononostante la prigionia – condizione perdurante che non venne modificata, per volontà dei detentori, neanche dall’armistizio del settembre 1943, dalla successiva cobelligeranza, dalla cooperazione e addirittura dalla fine della guerra – fu devastante da un punto di vista psicologico: disprezzati dalla popolazione – che spesso e volentieri li irrideva chiamandoli «wops», guappi, terroni – e dalle autorità detentrici, utilizzati come manodopera a basso costo a completa discrezione del governo britannico, dimenticati dalle autorità italiane postfasciste, quando non usati come “merce di scambio” per la cobelligeranza o per un trattato di pace meno duro, i soldati furono trattenuti in prigionia fino al 1946 inoltrato, quando cominciarono a rientrare in patria…».

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