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Felicita Zodacchi. Storia di una donna di Serravalle

contadina, cameriera in osteria (Genova, 26 dicembre 1883 – Serravalle Scrivia, 16 agosto 1927)

Dal primo momento in cui ho avuto orecchi per intendere fino a quando entrambe sono salite sul  treno dell’alzheimer, ho ascoltato mia nonna Lina e sua sorella Nuni ripetere che la loro mamma si chiamava Felicita, Felicita Zodacchi.
Se chiacchieravano dei tempi andati, mi mettevo in attesa della frase che inesorabilmente sarebbe arrivata: “nostra mumà as ciamova Felicita, Felicita Zodacchi!”
Più che un’esclamazione era quasi una sentenza. Una radice che coltivavano in silenzio e ogni volta rifioriva in un misto di orgoglio e riverenza.

Per me era solo un teatrino divertente. In quei giorni non avevo tempo e voglia di fare domande. “Meniman” sarei rimasta intrappolata per ore a sentire di quanti sberloni sulla testa si erano prese dalla loro “mumà” per le aste fatte male.

Lina e Nuni Alice

Molti anni dopo, riordinando vecchie carte, mi imbattei nel certificato di stato di famiglia della Lina. Eccola lì, di nuovo la Felicita Zodacchi. Per la prima volta pensai che fosse un cognome strano. Il bisnonno era un Alice e fino a qui tutto regolare, ma Zodacchi? Possibile neanche uno rimasto a Serravalle?
Digitando Zodacchi su Internet, trovai solo la pagina Facebook di Erin, una ragazza di Spokane, stato di Washington USA. Aveva pubblicato la lettera scritta da suo zio Mike Alice ad una genealogista affinché lo aiutasse a scovare informazioni sul fratello di suo nonno, morto durante la prima guerra mondiale.  Oltre al nome dell’uomo c’era quello della donna che aveva sposato. Il nome era Felicita Zodacchi.
Tutto corrispondeva, non potevano esserci dubbi. Mike era il nipote del fratello di mio bisnonno Giuseppe Andrea Alice.
Una volta contattato e diventati amici, scoprii che aveva già fatto diverse ricerche ed era in possesso di molti certificati. Nascite, morti, matrimoni. Sapeva persino che Felicita aveva dato alla luce sette figli, non sei come credevo.
Un po’ per aiutarlo, un po’ per curiosità cominciai a mia volta a scavare nel tempo.

Felicita nasce a Genova il 26 dicembre del 1883 all’Ospedale Pammatone. Il certificato di nascita è compilato da  un funzionario dell’anagrafe che inventa per lei un nome e un cognome. La madre è citata come donna che “non consente di essere nominata”. Svelato l’arcano Zodacchi.
Da quando gli uffici amministrativi avevano riscontrato il problema di gestire troppe persone con lo stesso nome (una quantità di Esposito a Napoli, Colombo a Milano dalla colomba simbolo dell’Ospizio di Santa Caterina della Ruota, Innocenti a Firenze, Proietti a Roma ecc.) si era deciso, almeno a Genova, di cominciare dalla A e finire l’anno con la Z.
Pertanto, il 26 dicembre, la Zodacchi si accomoda tra Zemetti Stefano, nato appena prima, e  Zoffoli Mario, entrambi figli di n.n. (nomen nescio dal latino o M. ignota in italiano e da qui la parolaccia..).

Certificato di nascita di Felicita Zodacchi

Avrebbe potuto essere la figlia di chiunque. Una donna in miseria, la vittima di uno stupro, una prostituta, una benestante che fa sparire il frutto proibito di una tresca clandestina, qualcuno che avrebbe voluto tornare a riprenderla in tempi migliori. Probabilmente non lo sapremo mai.
L’infanzia abbandonata finiva spesso per vivere presso famiglie di contadini, veri e propri “tenutari” che ottenevano un compenso e soprattutto nuova e fresca forza lavoro.
Forse in questo modo Felicita approda a Serravalle. E a Serravalle conosce Giuseppe Alice, con il quale convola a nozze nell’Aprile del 1904.  Sono contadini e abitano a Camporiolo, la cascina all’inizio del sentiero della volpe, a Cà del Sole. Sulla facciata si legge ancora la data del 1904.

Nel gennaio del 1905 Felicita partorisce il primo figlio Carlo che resterà in questo mondo soltanto tre giorni. Anche mio papà si chiamava Carlo. Forse mia nonna sapeva di questo fratello maggiore, del quale io non avevo mai sentito parlare.
L’anno dopo inizia una trafila ininterrotta di nascite: Maria nel 1906, Luigi nel 1907, Giovanni nel 1909, Adelaide (mia nonna) nel 1911, Antonietta nel 1913 e Angela (zia Nuni) nel 1915.

Antonietta Alice, sesta figlia di Felicita

A spezzare la catena ci pensa la prima guerra mondiale. Nonostante nel 1915 Giuseppe Alice abbia 38 anni e 6 figli piccoli viene chiamato alle armi. Soltanto dopo un anno, nel giugno del 1916, ottiene una licenza per convalescenza ma il mese successivo lo ritroviamo al distretto di Voghera e di nuovo sul fronte di guerra il 4 aprile del 1917.
Poi, laconicamente, due righe:“partito dalla zona di guerra l’11 agosto 1917” e “morto in seguito alla frattura della base cranica all’ospedale San Giuliano di Serravalle il 12 agosto 1917”.
Non so cosa sia successo tra il 4 aprile e l’11 agosto. Forse non lo sapeva nemmeno chi ha compilato il foglio matricolare.
Un’altra licenza dovrebbe essere riportata. Cosa significa poi “partito dalla zona di guerra” e il giorno dopo morto a Serravalle? Non poteva certo bastare un giorno per tornare a casa dalle zone di guerra.
Non so. A me sta bene anche se avesse semplicemente disertato. Come dargli torto?
Forse tra chi legge Chieketé c’è qualcuno appassionato di storia militare che saprà dire qualcosa di più.

Mio cugino Mike, romantico poliziotto in pensione, continua le sue ricerche. Ricorda il ritratto di un soldato con il cappello da bersagliere appeso alla parete della casa del nonno e pensa che potrebbe essere Giuseppe Alice. Io, più realisticamente, il bisnonno lo vedo meglio nel Genio Zappatori. Contadino, 38 anni, faceva parte della Milizia Territoriale,i reparti anziani di “scorta”: dove meglio avrebbe potuto essere impiegato se non a scavare trincee?
Un’altra cosa a Mike non va giù: la fine di suo zio non è abbastanza eroica e hollywoodiana.
E questa storia la conosco dalla voce di nonna e zia.
Il loro padre in quei giorni di agosto del 1917 sta effettivamente tornando a Serravalle. Il treno è in avvicinamento ma succede qualcosa. Pare che qualcuno tenti di derubarlo dell’orologio e che nella colluttazione il povero Giuseppe venga scaraventato fuori dal treno.
Lo schianto non è mortale e Felicita ha il tempo di correre in stazione, il grembiule a coprirle il viso.
La fine arriverà purtroppo poco dopo all’ospedale.

Cascina Camporiolo

Felicita rimane sola con sei figli, la più grande ha 11 anni e la più  piccola 2. Suo cognato ha lasciato Serravalle per l’America nel 1911 e lavora nelle piantagioni di fiori di Spokane. Di tanto in tanto spedisce dei soldi per aiutare tutta quella prole ma Felicita deve comunque rimboccarsi le maniche.
E’ la fine del lavoro nei campi. La fine della vita nella cascina di Camporiolo. Si trasferiscono in un appartamento in via Umberto I, davanti all’attuale municipio.

Fa la serva in un’osteria (credo sia stata più o meno dove ora sono i negozi Collini e Sancristoforo) e arrotonda stirando per gli ufficiali inglesi di stanza alla Libarna.
Questo lavoro lo ricordava anche la mia amica Mafalda (classe 1915) che di tanto in tanto andavo a trovare al Don Luigi Guerra.
Via via che crescono, i figli più grandi cominciano a lavorare. Nonna Lina inizia a undici anni e qualche anno dopo, ancora più giovane, sarà il turno della Nuni.
Tutti i giorni, neve o sole non importa, andata e ritorno a piedi fino alla filanda di Precipiano.
I primi tempi la Nuni era davvero troppo giovane per stare alla filanda. Raccontava che le davano una fetta di pane e la nascondevano con altre coetanee dentro ceste di vimini perché nessuno le vedesse quando c’erano i controlli degli ispettori del lavoro.
Spesso la sera Felicita e altre donne del paese camminano lungo i binari della ferrovia in cerca di pezzi di carbone caduti dai merci di passaggio.
Il suo ragazzo più giovane Giovanni è sveglio e atletico. Per lui e e i suoi amici quella raccolta lenta è un lavoro noioso e poco redditizio. Con la connivenza di alcuni macchinisti che decelerano durante il passaggio in stazione, saltano sui convogli e fanno rotolare a terra il carbone.
L’ha fatto cento volte ma un giorno di maggio qualcosa va storto. Un salto sbagliato. Un errore, una fatalità.
E Felicita corre ancora alla stazione, il grembiule a coprire il volto per non guardare quel figlio con la gamba maciullata.
La Mafalda, ormai centenaria, aveva ancora davanti agli occhi quel momento.
Gli uomini che trasportano Giuvanein in un lenzuolo bianco sporco di sangue e mamma Fortunein che grida “Va indrainta Mafalda. Guacia no”.
Muore di setticemia.  Non ha ancora compiuto sedici anni.
E’ forse il colpo fatale. Felicita si spegne nell’agosto di due anni dopo. Ha 43 anni.

Felicita Zodacchi

Di lei, oltre a questi ricordi, rimane una sola fotografia. La stessa che si trova al cimitero vecchio, accanto al ritratto di sua figlia Antonietta. E’ possibile che lì riposino anche Giuseppe e Giovannino. E’ l’immagine di una donna con i capelli raccolti come d’uso ai suoi tempi e la camicia abbottonata fin sul collo. Non c’è durezza sul suo volto. Solo uno sguardo dritto e sicuro.
Sembra di sentire la Mafalda quando diceva “a caminova drita e svelta”.
Ad oggi questo è quanto sappiamo. Mike continua a “scavare” e chissà forse scopriremo qualche altro pezzetto di storia.

Ho visionato centinaia di certificati on-line. E’ stato divertente e appassionante. Ho capito quante cose interessanti celano questi vecchi documenti. Quanti serravallesi non arrivavano alla vecchiaia, quanti bambini non arrivavano ad essere uomini, quanti sono stati figli di n.n.
Ho scoperto che si trovano sorprese, paternità ambigue, famiglie mescolate per necessità,  Ho scoperto cose che potrebbero stravolgere il mio albero genealogico. Ma è’ tutta roba da “cetti”.

Questa invece deve rimanere solo la storia di Felicita Zodacchi e del suo cognome unico e irripetibile.
Per rendere omaggio a lei e alla miriade di contadine che hanno camminato sulle nostre stesse strade. Ora capisco cos’era quel misto di orgoglio e riverenza: “nostra mumà as ciamova Felicita, Felicita Zodacchi!”


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