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Camion, ospedali e ragazze inglesi

Quali sono i confini di Serravalle? Naturalmente ci sono i confini amministrativi, definiti e codificati, o quelli, più ampi, risalenti all’epoca preunitaria e all’Ottocento postunitario, quando Serravalle era a capo di un mandamento, unità amministrativa che comprendeva i comuni di Serravalle, Arquata, Vignole, Stazzano, Borghetto di Borbera, Torre dei Ratti, Castello dei Ratti, Molo e Grondona. Ma ci sono anche altri confini, più indeterminati e “mobili” che attengono alla sfera economica, alla cultura, alle forme e alle tradizioni popolari, alla vita quotidiana, alla religiosità, al tempo libero.
E Chieketè? Entro quali spazii deve muoversii? Limitarsi a quelli amministrativi, o spaziare anche verso altri confini, meno facili da individuare  e da definire ma altrettanto importanti? A ben vedere, già alcune volte abbiamo “sconfinato” (si veda, ad esempio, la voce dedicata a Montespineto). Tuttavia è una riflessione da non affrontare sbrigativamente e alla quale si dovrà, nel prossimo futuro, offrire risposte adeguate.
Ora, a un anno dall’inizio della nostra attività, forse inevitabilmente, iniziano ad arrivare articoli di collaboratori che prepongono storie, biografie e narrazioni che esplorano e valicano i confini amministrativi serravallesi. Abbiamo deciso di iniziare a pubblicarli, come contributo a questa necessaria riflessione. (Redazione Chieketè)

Miss Field, infermiera ad Arquata nel 1918

Le storie sono simili a scatole cinesi: solo con una certa dose di curiosità e un pizzico di ostinazione si scopre quel che la materia più “istituzionale”, scolastica, di norma non racconta, è un po’ più complicato, ma anche più appassionante, risulta il ritrovare i dettagli di vicende cosiddette minori, come arrivare alle scatole più interne e celate. Nel grande quadro della prima guerra mondiale, in testi anche di discreto approfondimento, non accade comunemente d’imbattersi nel nome di Arquata Scrivia: eppure qui sorse, dal 1917 al 1920, una base britannica enorme, con la presenza di più di trentamila uomini, un raccordo logistico ineludibile per l’organizzazione dell’intervento inglese sui fronti italiani, che comprendeva dalle tende alle prigioni, dagli uffici alle officine, sconfinati depositi e magazzini, e ospedale, scuderie, luoghi di ricreazione. Non finisce di stupirmi quanto, un secolo dopo, quella che fu una città inglese sovrapposta a un paese che allora superava di poco le tremila anime, non sia praticamente più leggibile sul territorio. Unico segno evidente rimasto di quegli anni, il piccolo cimitero britannico attiguo al camposanto, di fronte alla Cementir, per molti rappresenta una sorpresa: la stessa memoria collettiva ha lasciato sbiadire le figure dei soldati, i padiglioni di legno e lamiera, esclamazioni cockney o irlandesi che i ragazzini impararono con prontezza.

Tanto emerge da questa miniera della storia novecentesca, ma qui vorrei soffermarmi sul ruolo delle donne inglesi ad Arquata, forse particolarmente in ombra. Le presenze muliebri giunte d’oltremanica furono numericamente limitate: la base impiegava parecchie maestranze femminili, ma nel panificio industriale, nelle lavanderie, alla confezione di alimenti, biancheria e vestiti, oltre che in stabilimenti come quelli metallurgici, lasciati sguarniti dai richiamati alle armi, lavoravano in prevalenza abitanti della zona. Le ragazze inglesi, quasi tutte più o meno ventenni, con qualche trentenne in supervisione, spesso di estrazione medio o alto borghese, si fermavano a qualche decina, e svolgevano il loro lavoro come infermiere o volontarie addette ai servizi. Le giovani suscitavano curiosità e sorpresa negli arquatesi, a cominciare dal fatto che guidavano, non di rado anche mezzi pesanti, e mostravano molta sicurezza nei compiti di accoglienza dei feriti giunti coi treni, di avvicinamento ai prigionieri austroungarici bisognosi di cure, di ideazione d’intrattenimento per i militari convalescenti o destinatari di un periodo di riposo. Al gruppo si univano saltuariamente infermiere di alto grado con ruoli organizzativi e d’ispezione, e mogli di ufficiali e benefattrici per visite abbastanza brevi. Queste nipoti quasi dirette di Florence Nightingale attraversavano anni che le avrebbero cambiate per sempre, portando anche mutamenti sociali: lavoravano, studiavano, spesso avevano già visto la drammaticità degli avamposti presso le prime linee, e costruivano nuove abitudini e quotidianità in un contesto d’indipendenza e sorellanza fra loro, anche di autodeterminazione, ignoti a molte coetanee che pure la guerra catapultava in sfide sconosciute. Non che mancassero momenti più lievi di “avventura italiana”: il basso costo di molti generi di consumo rappresentava la piacevole sorpresa di potersi concedere qualche minimo capriccio, e l’abitudine a tenere diari e album di schizzi e acquarelli lasciò traccia, negli archivi bellici e di famiglia, di un’Arquata quasi incantevole, con morbide colline da dipingere e tanti fiori di campo da raccogliere e far essiccare.

La “Vinicola” di Via Roma, trasformata in ospedale

L’ospedale inglese fu organizzato non lontano dalla vecchia stazione, negli edifici tra via Roma e via Antica Varinella, tuttora da molti chiamati “della Vinicola” e non troppo cambiati rispetto ad un secolo fa. Curava soprattutto postumi di ferite che necessitavano riabilitazione, e casi di malattie dal decorso lungo ma benigno. Visse, però, un periodo drammatico nell’autunno del 1918, con l’esplodere dell’epidemia di spagnola, con molti contagi e vittime fra militari e prigionieri. Funzionava, inoltre, un servizio ambulatoriale in caso di incidenti o malanni dei soldati di stanza alla base arquatese. Ricordo di Arquata rimane anche nelle memorie di una pluridecorata “matrona ” della servizio infermieristico militare inglese, Mathilda Dorotea Taylor, partita con la divisione detta della Regina Alessandra (QAIMS). In visita al minuto nosocomio arquatese, in effetti sezione staccata del 51°Stationary Hospital installato a Genova, arrivò in un giorno nevoso del 1918, così rigido da far temere le difficoltà di un rientro a Genova. Le circostanze non ottimali, una certa confusione e alcune infermiere intente a cucirsi abiti di fortuna con metri e metri di cotone grigio, avendo perso ogni bagaglio perché coinvolte nella ritirata dopo Caporetto, non le impedì di trovare la struttura ariosa, pulita e funzionale. Tra i suoi ricordi troviamo anche parole poetiche per il paese in primavera, ricco in aria benefica e scorci suggestivi. Sul potere di un luogo salubre si accentuava la fiducia per il recupero dei convalescenti, per i quali venivano approntate casacche azzurre da indossare per passeggiare e riposare in zone tranquille. Le volontarie si adoperavano anche per garantire costanti forniture di biancheria, e un vitto per i ricoverati più ricco di quello comune, e che comprendesse brodo, gelatina, soufflé di pollo, crema pasticcera ben zuccherata .

Mesti telegrammi

E mani femminili diventavano tramite nei momenti peggiori, con l’irrompere della morte. La notizia del decesso di un congiunto arrivava con un telegramma, ma poi le volontarie si attivavano per spedire alle famiglie almeno una foto della tomba del loro caro, nel cimitero ancora segnato da croci di legno e non dalle lapidi candide che vediamo oggi, e per tracciare qualche nota capace di farsi balsamo del ricordo. Per il resto, le loro giornata doveva scorrere fra lavoro infermieristico, gesti gentili di cura, come leggere un libro al capezzale di un paziente o scrivere una lettera sotto dettatura, bollitori sul fuoco, partite a carte, qualche momento per farsi belle, festicciole con amiche esterne alla corsia, perché giunte con qualifica di autista o cuoca. Finito il conflitto, dismessa la base, tornarono ai loro paesi, su strade diverse, i giorni di Arquata ridotti a un fiordaliso tra le pagine di un libro. Di alcune conosciamo i nomi: Kathleen Ludford Docker , Dorothy Elliott, Winifred Dunmall, Elsie Field, Phyllis Neilson Freeman, Cecily Jackson, Viola Martin, Annie Holden, Rose Cash Reed, Geraldine Stickland.

Cartoncino di rimembranza