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Quanti denti ha il pescecane?

Bibi in Piazza del Mercato

La piazza del mercato per me era casa: i primi passi per mano a mia mamma, la bicicletta con le ruotine, le ginocchia regolarmente sbucciate sulle recinzioni delle aiuole che allora erano dei piccoli cerchi di ferro dipinto (un vero attentato alla salute pubblica), il gelato e i ghiaccioli del bar Gigi.
La fiera di San Martino e gli autoscontri attesi con impazienza; le panchine verdi piene di mamme, zie e nonne che, perse nei loro “cetti”, raramente si preoccupavano di figli e nipoti.

Piazza Bianchi di Maria Miotto. Disegno di proprietà di Elisabetta Raviolo

Era casa anche per la Maria Miotto, pittrice e amica di mia nonna, che ho conosciuto quando era una biondissima anziana signora dall’aria rassicurante, le guance di pesca e truccata con cura come se ogni mattina dovesse dipingere un quadro su sé stessa. Da molti era conosciuta per le decorazioni sulle uova di Pasqua della Fidass e per le tele sulle quali con tecnica sopraffina riproduceva nature morte, paesaggi, vasi di fiori. Esattamente come lei, soggetti tranquilli.

Montespineto di Maria Miotto. Disegno di proprietà di Elisabetta Raviolo

A pensarci bene erano allo stesso tempo gli anni di terribili attentati, di brigate rosse e nere, dell’austerity che costringeva le auto a viaggiare una domenica sì e una no e aveva ispirato mio cugino Paolo a spremersi il cervello in noiosissimi calcoli sui numeri delle targhe (non chiedetemi cosa stesse facendo, so solo che poi ha studiato ingegneria) mentre io ero oltremodo impegnata a mettere in pratica le “dritte” del sopra citato cugino per fare delle belle bolle grandi con le “ciunga” dall’incarto blu e la faccia di Pinocchio che mia nonna ci comprava dalla Gilda.
In pratica nelle grandi città succedeva di tutto, in paese la quiete regnava sovrana. O almeno questa era la mia percezione di bambina.

E’ in questo quadro di pace apparente che un giorno sono cominciate le prove per una rappresentazione teatrale programmata per andare in scena proprio in Piazza Paolo Bosio
Quel giorno d’estate del ’75 avevo nove anni mentre uno degli ideatori dello spettacolo era Giancarlo Bignardi, un celebre figlio di Serravalle, da tempo affermato scenografo e costumista per i teatri di mezza Italia, collaboratore di artisti del calibro di Emanuele Luzzati e Carmelo Bene.

Giancarlo Bignardi

La testa di bambina curiosa aveva costretto le mie gambe a lasciare per un po’ la piazza e a trascorrere le ore sbirciando tra le sbarre del terrazzo per captare parole e gesti delle prove che di tanto in tanto si tenevano nel parco di Villa Caffarena. Si intuiva dalla musica, marcette per organetto di strada e armonium, che non si trattava di roba tranquilla.

Bignardi era riuscito nell’impresa di far nascere un vero palcoscenico rimodellando una vecchia corriera anni 60 e approntando uno scenario che ricreava dal nulla i bassifondi di Londra attraverso costumi, fondali, cartelli e una quantità di “ravatti” che prendevano vita grazie alle sue mani e a una fantasia inesauribile. Come se avesse lanciato in aria un mazzo di carte e queste, al suo comando, si fossero per incanto assemblate docilmente in un castello.

Bozzetto scenografico di Giancarlo Bignardi

Con l’aiuto di colleghi di teatro e a un cast in buona parte dilettantesco stava per andare in scena l’Opera da Tre Soldi di Bertolt Brecht e la notte dello spettacolo fu un evento indimenticabile, più unico che raro a Serravalle.

La trama è questa.
Il Signor Peachum è un negoziante, strozzino e ricettatore, che controlla in città il racket dei mendicanti. Procura loro moncherini finti e travestimenti strappalacrime e siccome la gente si abitua facilmente al dolore e alle tragedie altrui (ne sappiamo qualcosa anche oggi) deve inventare stratagemmi sempre più biechi per indurre i passanti a sganciare l’elemosina.
Nonostante sia un “ladro con la bibbia in mano” che arriva ad usare frasi dei libri sacri per profitto, è convinto di essere migliore rispetto a quella che considera la classe inferiore rappresentata da Mackie Messer il quale, dietro a guanti bianchi e modi affettati, nasconde un delinquente della peggior specie, ladro impenitente ed assassino.
In una stalla agghindata con mobili e oggetti di refurtiva, Mackie sposa segretamente Polly, figlia del commerciante, con la compiacenza e la connivenza del prete e del capo della polizia Tiger Brown, vecchio commilitone che lo ha salvato più volte dalla galera per soldi o per paura piuttosto che per amicizia incondizionata.
Peachum non sopporta che Polly sia la moglie del fuorilegge e il motivo, lungi da essere il pessimo profilo dello sposo, è la perdita di una spalla per i suoi loschi traffici. Dopo varie peripezie, con l’aiuto di Jenny e altre meretrici amiche/nemiche di Mackie, vittime e carnefici a loro volta, riesce a farlo arrestare e a mandarlo sulla forca. Poco prima dell’impiccagione però un messaggero della regina comunica che Mackie è stato graziato e gli conferisce il titolo di baronetto.

Questa in poche parole la trama e la vicenda alla quale abbiamo assistito quella sera accomodati su sedie a “brettio” con i nostri pantaloni a zampa e i colletti a punta, spesso a bocca spalancata per lo stupore, in parte anche per la passerella che correva attraverso gli spettatori e aumentava il coinvolgimento come mai fino a quel giorno.
A questo proposito, Massimo Lustig che ha recitato la parte di uno dei sodali di Mackie, ricorda che proprio sulla passerella un attore, da copione, avrebbe dovuto spingerlo leggermente. Nella foga del momento invece la spinta era diventata una bella botta e a stento era riuscito a non rotolare giù da palco. In compenso, grazie a questa rocambolesca uscita, l’ignaro pubblico aveva accordato un fragoroso applauso per la scena recitata in maniera così perfettamente realistica!

Lo spettacolo era stato contemporaneamente spassoso e drammatico, enfatizzato dal rosso fuoco del pulman, da colori cupi e lampi di luce inaspettata, trucchi e visi grotteschi di criminali e persone rispettabili che forse rispettabili non sono. Tutti pescecani, come dice la prima strofa, per sete di potere e di denaro.
Bignardi e la sua compagnia avevano portato sulla scena avarizia e ipocrisia distillando frammenti di vera miseria, quella costretta ad agire di conseguenza se non ha nessun’altra via di scampo.

Non ho conosciuto Giancarlo Bignardi ma ho capito quella sera che era un artista nel vero senso della parola, non nel termine abusato per chi canta in un talent o “u fa l’artista” come diceva mia nonna per qualsiasi attore vedesse in tv.
Me lo immagino come uno che immerso nell’arte ci viveva e ci sguazzava, con la bellezza e il dolore che questo comporta.
Canuto, suo amico, lo aveva soprannominato “Maledetti” e, mi fido di Tonino, credo di capire cosa intendesse. Una vita azzannata a morsi che permettesse, prima che alla mano di disegnare e creare, ad un grande occhio di vedere quello che gli altri, forse distratti o soddisfatti, non guardano.

Mi sono chiesta il perché della scelta dell’Opera da Tre Soldi. Bignardi, gentile ma irriverente e provocatore, avrà scelto a caso o scrutava qualcosa di noi?
Basta semplicemente sostituire i decrepiti moncherini del signor Peachum con case fatiscenti in mano a pochi, mai ristrutturate, affittate per mero profitto. Autorità che lasciano correre appalti e concorsi farlocchi, intascando mazzette per farsi la villa. Preti commercialisti che pensano più alle loro tasche che a quelle dei poveri, forze dell’ordine con stipendi da fame e lussi impossibili. Gente che scambia l’ambizione per un vestito di lusso e la rispettabilità per i guanti bianchi di Mackie Messer. Un mondo in cui anche l’amore e la carità finiscono spesso nelle fauci delle regole del denaro.
Sono tutti lì, personaggi sul palco. Siamo tutti qui, seduti ad assistere all’Opera da Tre Soldi.
Quanti denti ha il pescecane” le prime parole: Giancarlo Bignardi “Maledetti” voleva forse dirci qualcosa?