Antifascismo e resistenzaFestività civiliRacconti, testimonianze, favole, poesie

Una sigaretta può salvare la vita (a volte) Una storia partigiana

6 Aprile 1944.    Non potevo più rimandare. Dovevo andarmene, e alla svelta. Tirava una gran brutta aria. Avrei dovuto rendermene conto prima. Tutti quei movimenti di mezzi e di truppe… E poi il barbiere lo aveva detto chiaro e tondo a mio fratello: quelli della Milizia e i Tedeschi davano la caccia a un ufficiale biondo degli alpini che aveva che fare col CLN: li aveva sentiti lui in bottega tra una barba ed un giro di chitarra.

Da quando ero tornato in paese, dopo l’8 settembre, vivevo come un fantasma. Mi alzavo prima dell’alba e raggiungevo i taglialegna nel bosco. Con loro trascorrevo la giornata, abbattendo e impilando tronchi di castagno. Nella gavetta quel poco cibo che mia zia riusciva a passarmi. Io non esistevo, quindi non avevo neanche la tessera annonaria e senza quella, o hai dei gran soldi o fai la fame. A casa tornavo col buio, dopo il tramonto: meno persone mi vedevano meglio era. Non che temessi di essere tradito da qualcuno, ma la prudenza non era mai troppa.

Monumento ai Martiri di Voltaggio
(8 e 11 aprile 1944)

Fino a quel momento, tutto sommato mi era andata bene.  Per fortuna l’inverno era stato eccezionalmente mite, tra pochi giorni sarebbe stata Pasqua e in quell’ inizio di primavera splendeva sempre il sole: la vita all’aria aperta mi aveva regalato un’abbronzatura che sembravo appena tornato da una vacanza al mare. Se non fosse stato per i calli alle mani.

 Non potevo rischiare di farmi prendere e mandare al Tribunale Speciale, che poi voleva dire plotone di esecuzione per me e per gli zii che mi davano da dormire. Bisognava andar via. Già ma come? All’improvviso guardie armate erano state poste a presidio di tutte le strade, i ponti, i vicoletti ed i passaggi che portavano fuori dal paese ed era stato impartito l’ordine di lasciare aperti gli usci delle case per consentire improvvise irruzioni. Anche il solaio non era sicuro e poteva trasformarsi in una trappola. Così avevo aspettato che facesse buio e approfittando di un attimo di distrazione delle due sentinelle che sorvegliavano il bivio, avevo attraversato la strada, rasentato il muro e svelto svelto mi ero infilato nel passaggio che portava agli orti. Li avevo attraversati fino a raggiungere il nostro pollaio, lungo l’argine del torrente.

E adesso son qui, ho freddo, fame e son coperto di merda di gallina, ma non mi prenderanno; devo solo elaborare un piano.

A pensarci bene un modo ci sarebbe.  Se riesco a tornare verso casa…

Mi alzo, con circospezione torno sui miei passi. Le due sentinelle, un italiano e un tedesco sono distratte. Riguadagno l’uscio di casa. Devo sbrigarmi. E’ ancora buio ma ormai non manca molto all’alba. Mi pulisco alla bell’ e meglio. Metto poche cose e un pezzo di pane nello zainetto, mi lego al collo gli scarponi per essere più agile e non far rumore.  Saluto gli zii e scendo le scale. È una notte limpidissima. Mi infilo nel portone della vicina. Da lì c’è un passaggio che…  A un tratto delle voci! Non parlano italiano. Un fascio di luce si avvicina lungo la strada. Penetra prepotente nel portone seguito dalle due sentinelle. Ho appena il tempo di appiattirmi dietro una catasta di legna. Sono perduto. È la fine e non ho neanche un’arma per difendermi. Chissà perché, i due parlottano, scrutano con la torcia l’interno, ma non procedono oltre. Girano sui tacchi, tornano indietro.

Salvo per un pelo. Adesso non mi resta che procedere lungo il passaggio, scavalcare il muro che dà sul Campo Grande e poi da lì scendere verso la fonte e la strada per le Capanne è un gioco da ragazzi. Una volta in salvo raggiungerò i miei alpini che si stanno radunando nelle Langhe.

La superficie del muro offre numerosi appigli, lo scalo con una certa facilità, ma devo far piano: se faccio rotolare giù qualche pietra sono fritto. Ho raggiunto il colmo, mi affaccio dall’altra parte per valutare l’altezza del salto che dovrò fare. Maledizione! Proprio davanti a me, un tedesco con un fucile mitragliatore! Per fortuna mi dà le spalle, non mi ha visto né sentito. Meglio non sfidare la sorte. Ma avanti non si va.

Dopo pochi minuti, sono di nuovo a casa, ma qui non posso rimanere.

7 Aprile.     Passo la mattina a scervellarmi per farmi venire un’idea. Mentalmente percorro avanti e indietro tutto il paese sperando di individuare una via d’uscita. Mi sento un topo in trappola. Ormai è solo questione di tempo. La zia ha sentito parlare di rastrellamenti sui monti, verso il Tobbio. Tutto sommato meno male che la presenza della guardia mi ha impedito di fuggire in quella direzione. Per strada c’è movimento. Continuano a passare mezzi militari in un senso e nell’altro. Da qualcuno provengono dei lamenti, come se trasportassero dei feriti.  Ma soprattutto la zia mi porta la notizia che Beppe sta per lasciare il paese e andare a Genova. Lui abita un po’ fuori, non è interessato dal blocco e può avere maggiore libertà di movimento. Ha immaginato che anch’io cercassi di svignarmela e ha mandato a dire che domani mi aspetterà fino alle due, poco fuori il paese, passato il cimitero, vicino al Lemme. Da lì, con un po’ di prudenza potremo salire verso Borlasca e poi giù in Valle Scrivia dove passano i treni per Genova.
Devo assolutamente arrivarci. All’improvviso tutto è chiaro, limpido come il cielo di quell’aprile di guerra. A volte le soluzioni sono le più semplici. Nel mio caso semplice non vuol dire però meno rischiosa, che anzi solo la disperazione può farmi pensare di poter realizzare quel che ho in mente: dovrò passargli sotto il naso dei tedeschi. E’ un mezzo suicidio, ma a questo punto o la và o la spacca.

Prego la zia di mettere in moto la sua rete di conoscenze e non senza fatica torna con quanto le ho chiesto: un paio di scarpe da passeggio, un abito scuro, un cappotto e un paio di guanti. Il tutto deve servire a darmi un’aria distinta, signorile. I guanti hanno anche uno scopo pratico: nascondere le callosità e le spaccature provocate dall’acido tannico dei castagni, che potrebbero tradire la mia reale identità.  E poi c’è il colpo di genio. Sacrifico una parte dei pochi spiccioli che ho e mi faccio comprare un pacchetto di Eva. Sono sigarette col bocchino d’oro, confezionate in scatole di cartone bianco. Molto eleganti.

8 Aprile 1944.    All’una esco di casa. La strada è assolata e deserta.  Mi avvio lentamente, molto lentamente.  Zoppicando in modo evidente imbocco la strada per il cimitero. So che un distaccamento di tedeschi si è installato nel piazzale, ma devo attraversarlo. Un paio di soldati mi notano e si avvicinano. Allora mi fermo, mi appoggio al muro e prendo a massaggiarmi la gamba dalla quale zoppico. Evidentemente non mi ritengono un pericolo, perché si fermano e tornano sui loro passi. Dentro di me sento accendersi la speranza. Forse ce la faccio ma devo essere prudente.  Proseguo con una lentezza esasperante. Al principio del viale che porta al cimitero sono alloggiati altri militari: un altro pericolo. Passo davanti alle loro finestre. Sono sicuro che qualcuno mi sta osservando. All’inizio del viale ci sono due grosse bombe da 305 della Prima guerra mondiale, messe lì per ricordo. Mi ci appoggio e prendo di nuovo a massaggiare la gamba.  È tutto tranquillo. Riprendo a camminare, sempre lentamente e sempre zoppicando. Il cimitero è lì davanti a me, un centinaio di metri che sembrano eterni.  Vorrei mettermi a correre o almeno affrettare il passo, ma so che è un errore che non devo commettere. Passando davanti agli alberi del viale leggo le targhette con i nomi dei caduti della Grande Guerra. Non vorrei proprio che piantassero un albero anche per me.

Ecco, ormai sono quasi al cimitero, il Lemme è a due passi. Chissà se Beppe ci sarà ancora. Mi pare di averci messo un’eternità. “Alt!” L’ordine arriva come una fucilata e davanti a me si materializzano le sagome di due soldati un tedesco e uno della Milizia. Mi blocco immediatamente, ma non mi perdo d’animo. Sono lucidissimo e con tutti i sensi all’erta. So per esperienza che non bisogna avvicinarsi alle sentinelle, per cui rimango nel punto in cui mi sono fermato e mi rivolgo all’italiano: “Vorrei dire una preghiera per i miei morti, se è possibile” Il tedesco non sembra molto convinto, parlottano fra loro e poi mi fanno cenno di andare.

Forse sarà per scaramanzia, ma non entro, mi fermo contro il cancello e prego. Oh, se prego! Prego col cuore. Prego come non mi è mai capitato. Prego mia madre, se può vedermi… Vorrei che il tempo si fermasse qui, adesso, in questo silenzio, in questa pace. Come se ci fosse solo l’odore della primavera e non la guerra, non i tedeschi, come se non stessi fuggendo. Appunto, fuggire. Non posso restare qui in eterno.

Scheda riconoscimento partigiano
Giovanni BENASSO

Torno verso di loro, li ringrazio e quasi senza rendermene conto porgo loro il pacchetto di Eva: “Sigaretta?” Le sigarette di lusso fanno il loro effetto. Lo vedo dallo sguardo dei due militari. L’italiano, specialmente, che accetta senza esitare. Il tedesco tentenna, poi accetta anche lui. Con la mano che stringe la sigaretta indica la mia gamba. “Che cos’ha?” traduce l’italiano. Allora spiego che da mesi ho un male terribile e che non se ne conosce la causa. Dovrei fare delle terapie a Genova, ma quei bastardi di Inglesi continuano a bombardare ed è pericoloso andarci. Il medico mi ha ordinato comunque di passeggiare, fare massaggi e prendere tanto sole. “Spesso mi metto là” dico indicando un punto poco distante, in prossimità di un rio che scorre nascosto alla vista. “Se permettete…”  Siccome non fanno obiezioni mi avvio, sempre lentamente su per il terreno scosceso. Lo so Beppe sta aspettando ma non posso rischiare di rovinare tutto proprio adesso. Di sicuro mi stanno seguendo con lo sguardo.

Questo è un punto favorevole. Mi fermo. Mi stanno guardando. Mi siedo nell’erba. Continuano a guardare. Tiro su il pantalone e scopro la gamba al sole. Non mi staccano gli occhi di dosso. Incomincio a massaggiarmi la gamba. Si sono girati di là! Con un salto scendo nel ruscello al riparo dalla loro vista. E adesso via, a gambe levate verso il guado. Beppe è ancora lì nonostante le due siano passate da un pezzo. Ci abbracciamo ma non c’è tempo da perdere, ci attende un lungo e pericoloso cammino. Mentre procediamo con fatica su per il bosco ci raggiunge il crepitare inconfondibile delle armi automatiche. Ci hanno già scoperti? Sono sulle nostre tracce? Ci acquattiamo immobili cercando riparo dietro i tronchi di castagno. Tutto tace. Non siamo ancora così lontani. Il paese è ancora in vista. C’è del movimento dietro il cimitero. Beppe tira fuori un piccolo binocolo. Stanno portando via dei corpi. Li contiamo: sono otto.

Torna alla HOME