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Storie da “Pausa Pranzo”

UN MEMORABILE PANETTONE

Il pasto, alla Mensa aziendale del Delta è sempre stato ottimo e abbondante.
Non scherzo.
I pasti venivano preparati al mattino nell’immensa cucina da un capocuoco esperto e una decina di aiutanti, tutte donne, che poi erano anche le addette alla distribuzione. Non cibi precotti ma pasta di marca, pane appena sfornato, carne, verdure e frutta fresche; qualche volta veniva servita un’ottima pizza, altre volte, secondo l’estro del cuoco, verdure ripiene, parmigiana di melanzane. Persino i “RABATONI” preparava quel capo cuoco di origini alessandrine. I banchi di distribuzione erano muniti di scaldavivande e venivano alimentati in continuazione da carrelli termici provenienti dalla cucina.
La mensa del Delta era suddivisa in tre aree di distribuzione in refettori separati e distinti: c’era la grande sala ove, in mezz’ora, consumavano il pasto gli operai e che, in cinque turni consecutivi, a cominciare dalle 11,45 e a finire alle 12, 45 distribuiva cibo per oltre 300 coperti. In un salone attiguo, più piccolo trovavano posto, dalle 12 alle 13, circa ottanta impiegati e infine, in una vera e propria sala da pranzo, con tavolo munito di tovaglia e suppellettili pregiate, apparecchio radio e arredo vintage, c’era la mensa per i dirigenti, che di solito consumavano il pranzo (stesso menù della ciurma ma cucinato un momento prima) dalle tredici in avanti.

Distribuzione pasto


Questa suddivisione, fortemente voluta dalla dirigenza di allora, aveva diversi scopi: quello ufficiale era l’orario di pausa diverso (gli operai turnisti dovevano lavarsi, mangiare e tornare al proprio posto in mezz’ora; i “normalisti”, cioè quelli che lavoravano otto ore solo di giornata e gli “equiparati” avevano tre quarti d’ora di pausa e gli impiegati un’ora. Gli altri scopi, non confessati ma evidenti erano quelli beceri, come evitare che gli impiegati sporcassero i loro vestiti sedendo agli stessi posti degli operai, molti dei quali facevano lavori che lasciavano tracce sulle tute, e quelli politici: tenendoli separati non c’era il rischio che certe idee radicali circolassero in una categoria che era sempre stata e si voleva restasse dalla parte del padrone. Questa separazione agli occhi di molti fra i più giovani, me compreso, era odiosa e anacronistica. Alcuni, infischiandosene delle disposizioni, consumavano tranquillamente il pasto nel salone degli operai seduti ai loro tavoli in loro compagnia il capo della sorveglianza non mancava di riferire i nomi alla Direzione. Un giorno, facendo lo gnorri, chiesi al direttore, con la scusa di recuperare per altro scopo la sala mensa impiegati, se non fosse possibile unificare i refettori ed ebbi una risposta netta, quasi feroce: “finchè sarò io a decidere nessuno si dovrà più permettere di fare proposte simili”.

Mensa Dirigenti

La mensa continuò ad essere gestita in questo modo fino a che il direttore di allora andò in pensione.

Mentre per gli operai 30 minuti erano un tempo veramente esiguo, per gli impiegati l’ora a disposizione lasciava tempo libero nell’ambito della pausa, perchè quasi tutti avevamo preso l’abitudine di mangiare molto velocemente come gli operai e di ritrovarci alle macchinette del caffè, per terminare insieme la pausa. Si formarono dei gruppi spontanei con abitudini diverse. C’era chi utilizzava la mezz’ora residua per parlare di sport, chi si dedicava alla lettura dei giornali, e chi, come quelli del gruppo di cui anch’io facevo parte, giocava velocissime mani di tressette, scopone scientifico o briscola.

Il caffè, rito del dopo pranzo

Nel nostro gruppo “Pausa Pranzo” c’era, tra gli altri, Giorgio B., del Magazzino Approvvigionamenti. Un tipo ameno che ricordo con allegria anche se, in più di un’occasione, i suoi modi di fare mi lasciarono molto perplesso. Lo ricordo il giorno che venne a fare il colloquio per essere assunto. Lo vidi in portineria, molto elegante e con il Financial Times quasi ostentato, in tasca. Lo rividi un mese dopo a mensa sempre con quel giornale in tasca. Era entrato in forza all’organico del Magazzino Approvvigionamenti dove Carlo Ferrarazzo, Gisella Bagnasco e gli altri che mangiavano al mio stesso tavolo o lì vicino lavoravano. Durante la pausa se ne stava per i fatti suoi guardando noi che giocavamo a carte con un certo sussieguo che mi dava ai nervi. Questo atteggiamento durò una settimana o due. Poi siccome uno degli habituè era assente lo invitammo a prendere il suo posto nella mano di briscola. Disse di saper giocare, anche se preferiva il bridge. (E si prese a questo punto il mio primo “vaffartifriggere”). Era in coppia con me e commise un errore dietro l’altro fino a perdere mano e partita con ignominia. Argomentò così bene l’analisi della sconfitta che quasi quasi mi convinse che gli errori li avessi fatti io. (E qui si prese il secondo degli innumerevoli “vaffartifriggere” che gli regalai negli anni della nostra amicizia).
Da quel giorno divenne il più accanito dei giocatori e prese persino a giocare bene, specialmente a scopone, anche se, di tanto in tanto non giocava per leggere il giornale che non aveva letto in treno (veniva da Genova).
In una di queste occasioni lesse che al Santuario della Guardia di Tortona, avrebbero messo a terra per restauri la Modonna benedicente installata sulla guglia più alta. Scattò come una molla. Cercò il numero della Curia sull’elenco telefonico e telefonò. Chiese del Vescovo che naturalmente non era disponibile e il sacerdote al telefono domandò gentilmente se poteva essere utile lui: “Sì”, rispose Giorgio , e poi, molto bruscamente, chiese: “E’ verò che state per tirar giù la Madonna?”- E l’altro gli rispose di sì. Al che lui con un tono che non ammetteva repliche urlò “Voi preti dovreste saperlo che tirar giù le Madonne è un peccato mortale!” e sbattè la cornetta sul ricevitore.

Restauri al Santuario e alla Statua della Madonna della Guardia di Tortona

Si rivelava così un tratto del suo carattere: era un burlone. Uno a cui piaceva fare scherzi, anche feroci. E se ne vantava. Ci raccontò di quando legò con una corda lenta le maniglie delle porte contrapposte dei suoi vicini di casa e suonò a tutti e due i campanelli. Uno scherzo che quasi si mutò in tragedia ma che lo divertì molto e del quale andava fiero. Il primo dei vicini che fece per aprire la porta se la trovò bloccata e cominciò a strattonare. L’altro vicino, dopo lo squillo del campanello sentì scuotere la porta e reagì con violenza aprendo di scatto e di conseguenza richiuse quella dell’altro. Andarono avanti così per diversi minuti e le loro bestemmie si sentivano per strada. Poi la corda si ruppe, le porte si aprirono e se le diedero di santa ragione imprecando, finchè capirono che si era trattato di uno scherzo. Naturalmente, lui, Giorgio, si guardò bene dal confessare d’esserne stato l’artefice: si limitò a sganasciarsi dal ridere guardando la scena dall’occhio magico della porta di casa sua.

Un ragazzo dispettoso e furbo direte voi. In parte. Perchè in parte era di un “bambinesco” disarmante.

Una mattina di dicembre, era nevicato, arrivò in ufficio meravigliatissimo per aver visto, alla stazione di Arquata un “albero di pomodori” stracarico anche s’era inverno e c’era la neve. (A Genova non sapeva cosa fossero i cachi?).
Ma c’era, in questo suo ridiventar bambino qualcosa che lo rendeva antipatico: amava fare gli scherzi ma non tollerava subirli; diventava furioso e vendicativo nei confronti di chi gliene faceva uno. Inutile dire che il nostro sport preferito diventò fargli scherzi durante la pausa mensa.

Se ne accorgeva di rado delle prese in giro, ma quando realizzava che si trattava di una burla nei suoi confronti, toglieva il saluto, ammutoliva, diventava cattivo.
Lo lasciammo in pace per un po’ ma dopo che ci raccontò di un altro terribile scherzo fatto ai suoi vicini di casa, decidemmo di rendergli pan…ettone per focaccia.

Il Panettone Alemagna

La preparazione durò a lungo ed impegnò per molti giorni la pausa pranzo di alcuni di noi.
Era la fine di novembre e il mese appresso sarebbero state distribuiti la tredicesima e il panettone di marca che l’Azienda regalava a tutti i dipendenti in occasione del Natale. Noi pensammo di prepararne uno “speciale” per Giorgio ma per farlo era necessaria la complicità di un ufficio poco incline agli scherzi: L’Ufficio del Personale. Invece trovammo il dott. Parodi, capo dell’Ufficio, genovese anche lui e al corrente delle frequenti “marachelle” di Giorgio, incline a portare a termine la burla.
Quando arrivò il camion con i panettoni ne prendemmo uno e, con la massima delicatezza ed un po’ di vapore, ne aprimmo la scatola di cartone senza lasciare la minima traccia. Con la stessa delicatezza aprimmo la busta di cellophane ed estraemmo il pancettone: lo svuotammo, lasciando intatto l’esterno dopo averne tagliato il fondo senza romperlo. Lo riempimmo di segatura di legno mista a pasta e fagioli scolata. Lasciammo asciugare. Rincollammo il fondo , riconfezionammo il tutto. e affidammo il panettone… ripieno alle cure del dottor Parodi che, il giorno di paga lo consegnò personalmente a Giorgio.
Era uno scherzo del tutto simile ai suoi, cattivo, preparato con cura e di cui non vedi l’esito che puoi soltanto immaginare.
Invece l’esito ce lo raccontò Giorgio il sette di Gennaio.
“Ragazzi”, disse, “è successa una cosa molto spiacevole. A Natale sono stato invitato a pranzo a casa della mia ragazza e ho portato il panettone del Delta come dono. Quando lo abbiamo tagliato è uscita una schifezzza maleodorante e spugnosa, una roba da vomito, da non credersi. Ah, ma io ho già mandato una protesta scritta all’Alemagna chiedendo ragione di quello schifo. Ora voglio proprio vedere cosa mi rispondono.

Cosa gli rispose l’Alemagna non l’abbiamo mai saputo.

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Benito Ciarlo

Calabrese di Montalto Uffugo (CS), dov'è nato nel 1950. Vive a Serravalle Scrivia (AL) dal 1968.

2 pensieri riguardo “Storie da “Pausa Pranzo”

  • Angelo piras

    Bravo Benito, mente inesauribile, dalla bonomia ineguagliabile. Ogni volta che leggo qualcosa del vecchio Delta mi prende un attacco di nostalgia e mi viene il groppo in gola. Sono stati per me anni meravigliosi e li ricordo bene. Ma grazie a Benito quei ricordi sono più vivi grazie alla sua capacità narrativa. Angelo Piras

  • Ringrazio Angelo Piras. Molti comuni ricordi dei nostri vent’anni tornano a farci compagnia, ogni tanto e, belli o dolorosi che siano, non smetto mai di ringraziare la sorte che mi ha permesso di viverli e di raccontarli.
    Un fraterno abbraccio, Ben.

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