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Outlet: troppo bello per essere vero!

Mi era stato chiesto da un periodico “professionale” (il bimensile Architetti, del gennaio 2002) di scrivere un pezzo sull’Outlet, allora di recentissima apertura e così l’avevo descritto; oggi, a distanza di quasi vent’anni, a parte annotare la triste scomparsa di Tonino Canuto, cambierei ben poche cose..

L’articolo di Architetti

Tutti conosciamo il piacere di girovagare per stradine guardando vetrine, quando siamo in vena di acquisti, e ancor più ci dà gusto se i negozi sono immersi nel dedalo del centro storico.

Ma, si sa, nel centro storico ci sono edifici da “conservare”, assoggettati a ingombranti vincoli dai progettisti del Piano Regolatore, quando non, quod deus avertat, addirittura dalla Soprintendenza ai Beni ambientali ed Architettonici. E questi intralci non si conciliano con le necessità di un esercizio commerciale (o almeno con quelle che gli addetti ai lavori stimano tali): grandi vetrine, posizione visibile, nessun vincolo alla organizzazione interna, standardizzazione degli arredi e tanti, tanti parcheggi, il più vicino possibile, meglio se a fianco del negozio: quasi che il camminare per raggiungere il negozio potesse limitare la voglia di spendere dei potenziali clienti.

Così ai maghi dello shopping è venuta la singolare idea di inventarsi ex novo un centro storico (ma il termine centro è di per sé arbitrario, dal momento che non è al centro di nulla).

E, già che c’erano, se lo sono inventato addomesticando le caratteristiche del tessuto urbano che parevano loro troppo scomode.

A Serravalle Scrivia (AL), famosa sinora perché da lì, sorvegliata da un ragguardevole cippo nel miglior stile littorio, principiava la Camionale, è sorto – artefici McArthur Glen – Serravalle Outlet.

L’ingresso dell’Outlet (foto R. Almagioni -2002)

Potrebbe sembrare ingiusto dire che l’Outlet è l’unica attrattiva di questo paese: certo uno dei più grossi ristoratori locali (Tonino, più di un quintale di stazza, titolare di un locale denominato I tre scalini, alla fine del paese procedendo verso Arquata, dove è assai consigliabile una sosta a mezzogiorno, se vi sottraete alle lusinghe fastfoodistiche di Spizzico o del caffè ristorante Gazebo, che fiancheggiano la Piazza dei Portici dell’Outlet) sostiene che, durante l’ultima guerra, mentre gli alleati bombardavano allegramente Novi Ligure e Arquata, non abbiano sprecato per Serravalle una sola bomba, neppure per sbaglio.

E tuttavia Serravalle è, sia pure al margine orientale,  terra di Mandrogni, etnia di abilissimi commercianti, la cui storia è inestricabilmente intrecciata con le fortune della borghesia ligure-piemontese (chi fosse interessato ad un piacevole approfondimento può, se ci riesce, procurarsi Il regalo del Mandrogno, di Ettore e Pier Luigi Erizzo, edizioni Araba Fenice, una sorta di Gattopardo di queste terre a cavallo tra Piemonte e Liguria), che del commercio, senza aver nulla di loro da commerciare, hanno fatto arte.

Il luogo dove, dal nulla assoluto, è stato costruito il villaggio della moda era una plaga quasi totalmente inedificata, se si eccettua la cascina Praga, risorta a nuovo splendore (forse quasi troppo) con i proventi delle aree cedute per l’operazione.

La presenza dell’Outlet, anzi, meglio, solo il suo presagio, ha negli ultimi anni innescato un inarrestabile processo di proliferazione, lungo l’asta della Statale, di edifici di ogni tipo: negozi di mobili, discoteche, palestre, opifici, vivai di fiori, financo un motel, ed ogni altra diavoleria che suole collocarsi “in fregio” ad un importante asse di comunicazione: e di sera un proliferare di eterogenee signore cui si potrebbe applicare la tassa del plateatico[1].

Il visitatore che intenda usufruire di tutti i servizi e le comodità di una vera e propria cittadina in stile ligure-piemontese, curata e gradevole (così recita il pieghevole ufficiale) deve affrontare una rotonda (“giratoria” nel gergo) dall’aspetto inquietante: soprattutto a buio, quando un tubo dalle luminescenze verdastre che corona il guardrail le conferisce un aspetto un po’ extraterrestre[2].

Chi supera l’incertezza interplanetaria della rotonda, viene accolto, dopo breve percorso rettilineo, da un immane parcheggio che, dice sempre la descrizione ufficiale, consente di passare davvero una piacevole giornata di shopping, liberati dal fastidioso stress del traffico.

L’Outlet di Serravalle Scrivia (foto a volo d’uccello di Georges Giuliani)

Da questo “guardaroba” davvero imponente (e anche discretamente curato negli arredi e nei particolari), dove il visitatore deposita il suo inevitabile quanto ingombrante “cappotto” a quattro ruote, gli si apre una duplice possibilità di accesso al villaggio della moda: se si sente particolarmente autorevole sceglierà l’accesso “trionfale” passando dalla porta centrale; nelle intenzioni dei progettisti questa doveva certamente richiamare una delle molte porte delle nostre città murate: l’esito è tuttavia più simile ad un famedio o all’ingresso di un nosocomio ottocentesco, ma certamente non privo di una qualche solennità; se invece gli pare di esser venuto solo per accontentare la consorte, o solo per curiosare, ma lui, lui no, non si lascia impressionare da questi siti, allora sceglierà uno dei due più defilati e riservati, per quanto ugualmente accoglienti, ingressi laterali, muniti ciascuno di una torretta con sovrastante lanterna (par di intuire che intendessero richiamarsi ai fastigi delle torri civiche, ma ahimè danno più nell’altana, in stile coloniale, di prigione sudamericana).

Oppure sceglierà semplicemente l’ingresso più prossimo alla sua depositata vettura.

Ma una volta entrato, anche lo smaliziato e cinico redattore di queste note non può che lasciarsi coinvolgere dalla sensazione di essere in un luogo comunque gradevole.

Contrariamente alla pessimistica previsione formulata davanti al mare di vetture che affolla il parcheggio, nessuna sensazione di eccessivo affollamento: la vastità del luogo diluisce la più agguerrita turba. Il passeggio è piacevole, le vetrine generalmente ben allestite, le strade sufficientemente ampie, senza eccessi, con alternanza misurata di calibri diversi.

Viene da domandarsi che cosa addolcisca così l’animo del viandante e con quale sortilegio riescano ad aggirare le più munite prevenzioni: portici, archetti, colonnine, balconi panciuti, colori pastello e improbabili blasoni dipinti sulle facciate; tutto congiura! Tutto dice: “Sono finto” eppure lo dice con una certa grazia barocca, con una misura pseudosettecentesca che, lungi dal farti ricusare il falso, te lo rende accettabile, quasi gradito.

Un viale interno dell’Outlet (foto R. Almagioni – 2002)

Forse l’alchimia sta in una riuscita umanizzazione del centro commerciale; nello spazio coperto e climatizzato, bombardato dal rumore di fondo, un micidiale miscuglio di brusii e di disco music, ti senti vulnerabile al condizionamento che induce all’acquisto. Qui, in un contesto che ti pare più neutrale e domestico, con i percorsi di transizione all’aperto (con l’ineludibile ricorso della disco music ma a toni accettabili), e i negozi dall’aspetto raffinato dove puoi entrare senza acquistare – grazie sto solo guardando – senza guadagnarti una occhiataccia da sussiegosi addetti alle vendite, ti sembra di essere meno esposto al condizionamento e più artefice dei tuoi destini commerciali: e in questa sorta di anestesia, finisci per imbatterti nella giacca della tua vita! O almeno quella che, nelle vie del borgo artificiale, in mezzo a cento altri che sono qui venuti mossi da un uguale imperativo: risparmiare!, ti pare tale.

Il problema è capire se quando sarai rientrato nel mondo reale, continuerà a parerti tale. E se il prezzo sarà stato davvero un affare: pagare un capo dell’anno scorso il 30% in meno di quanto l’avresti pagato in una boutique di Via Montenapoleone a Milano può essere un affare se hai gli occhi a mandorla e paghi in yen.

Dunque, sarà bene prepararsi alla prima visita all’Outlet redigendo un elenco quanto più articolato possibile di capi di abbigliamento e di accessori (è consigliabile perché l’elenco sia efficace consultare la lista dei negozi presenti) di cui non si ha il minimo bisogno e dal cui acquisto ci si deve quindi assolutamente astenere. Dopo aver letto reiteratamente l’elenco, facendo precedere ogni voce da “non ho assolutamente bisogno di…”, fino ad ottenere un discreto autocondizionamento, ed eventualmente tenendolo pronto al soccorso in una tasca, si può affrontare la prova sul campo.

È consigliabile affrontare la prima esperienza in piccoli gruppi (massimo tre persone) e con solide esperienze condivise: è comunque preferibile, in assenza di una ragionevole garanzia di gusti comuni (il matrimonio di durata eccedente i sette anni è equipollente), darsi un appuntamento a termine e girare separati.

E, trascorso il termine, conseguire la propria vettura e farsi nuovamente deglutire dalla realtà. 


[1] Con l’entrata in funzione dell’Outlet le signore si sono trasferite altrove.

[2] Il tubo fluorescente è rapidamente stato eliminato e le giratorie riempite di fiori, che vengono accuratamente manutenuti e sono quasi sempre impeccabili.