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Fiera di Santa Caterina (“a Féra”) – Novi Ligure, 25 novembre

“Am ricordu che quand’eru ‘n fieu…”  Mi ricordo che quand’ero bambino sentivo da qui gli zoccoli dei cavalli che i commercianti da Genova portavano giù a Novi, per la Fiera”.

Il maniscalco Umberto Corsaletti davanti al suo negozio (fotografia tratta da Michelangelo Mori, “Istantanee di storia novese”, Novinostra 1993)

Comincia così il racconto del nonno Armando, classe 1910, che nel 1995 aveva anni 85 e viveva sulle colline a metà fra Novi e Serravalle dov’era nato. Quando gli chiedevo cosa ricordava della Fiera di Santa Caterina dei suoi tempi, i suoi occhi si illuminavano vedendo il mio interesse e proseguiva. All’inizio del secolo, la Fiera era soprattutto dedicata al bestiame (cavalli, muli, buoi) ed agli attrezzi agricoli. Novi infatti era un centro agricolo di riguardo, sebbene non mancassero diverse attività industriali: la filanda di seta, le fornaci per i mattoni e poi l’Ilva, le lampadine, le formette (forme per le scarpe), le caramelle, il cioccolato.

In campagna a quei tempi il cavallo era di grande aiuto: serviva al lavoro dei campi, oltre ai buoi,  ed al trasporto di uomini e cose. Intorno a lui si creava lavoro per il maniscalco (a Novi c’era Scursalèti), per il fabbricante di finimenti in cuoio, di carri e calessi. Alla Fiera, nella Piazza del Maneggio (oggi Piazza Pernigotti, quella che ospita le giostre), i cavalli con altri quadrupedi erano disposti in file ordinate, legati alle transenne che formavano corridoi. In quegli spazi i commercianti li esaminavano e facevano le loro contrattazioni di compra, vendita e scambio: “Io ti dò un mulo, tu mi dai tre capre da latte.”

Manifesto promozionale
della Fiera di Santa Caterina 1932

Invece i “banchetti” (le bancarelle) erano collocati nella Piazza XX Settembre: un po’ di vestiario, zucchero filato, frutta secca (“i nisuréini”), torrone e gli immancabili palloncini. E sempre in Piazza XX c’erano i “baracconi”, ovvero le giostre o Luna Park, con la loro musica, luci e colori. Il tutto condito con profumo di caldarroste (“ei rustìe”). Oltre ai Novesi ed agli abitanti dei Paesi limitrofi, la Fiera attirava i Genovesi, che coglievano l’occasione per venire a gustare il tipico tacchino arrosto (ei bibéin a rostu), prendendosi così un anticipo di un mese esatto sul più solenne tacchino natalizio.

Per tutta l’estate e l’autunno, nelle aie del Novese (n’ta curte), il tacchino veniva allevato già pregustando il Novembre nebbioso, quando gli avrebbero fatto la “festa”… ed il prossimo sarebbe stato per Natale. Mia nonna Claudina arrostiva il “bibéin” nel forno a legna, là fuori in cortile e nel suo sugo cuoceva il risotto. Che bontà, ancora lo vedo, un po’ marroncino e fumante… mmhmm… ne sento ancora il profumo. Lo zio Agostino poi portava sempre un tartufo che sublimava il risotto.

Qualche volta a Santa Caterina cadeva la prima neve ed anche questo – a parte il disagio che inevitabilmente colpiva i venditori ambulanti, i giostrai, i commercianti di bestiame, insomma tutti i protagonisti della grande Fiera – contribuiva a rendere magico il clima di questa festa, che ancora oggi conserva il suo fascino, pur nell’enorme diversità delle proposte.

La Fiera resta un appuntamento annuale, un’occasione per ritrovarsi, invitare parenti e amici, per comprare qualcosa di utile o vendere un oggetto superfluo; magari per scegliere un addobbo per l’albero ed il presepio che presto andremo ad allestire.

Un”reportage” dalla Fiera di Santa Caterina 1893 (“La Società”, 26 novembre 1893)

I canestréi da Pive” – I canestrelli della Pieve

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