ITALIA ’90 – Costa Rica, nel nome di Bora, a VOLTAGGIO
(*) rivisitazione dell’articolo pubblicato sulla rivista online Contrasti
Mancano poche ore, poi sarà finale. Il Mondiale di calcio più criticato, più triste per noi italiani, insieme a quello russo di quattro anni fa, ma a suo modo unico. E, mentre gli appassionati del pallone aspettano il fischio d’inizio, ci piace ricordare una storia di qualche anno addietro, che ha legato in maniera indissolubile il piccolo borgo di Voltaggio con la Coppa del Mondo. Era l’estate di Italia ’90, la rassegna casalinga che dalle nostre parti ha unito la val Lemme con il lontano Centroamerica. Un nome: Costa Rica. Un luogo: il piccolo campo da calcio di Voltaggio. Un sogno. Una passione. Un’impresa realizzata dentro un luogo piccolo, ma orgoglioso. Capace di portare in ritiro per una settimana una nazionale che divenne la sorpresa del Mondiale. Voltaggio e il Costa Rica. Per chi ricorda quei momenti, due nomi che non possono che rimanere impressi insieme nella memoria del nostro territorio.
Credo di dovere, anche inconsciamente, la mia passione per il calcio a un evento che, per molti nel nostro territorio, è rimasto a lungo impresso nella memoria e che io…non ricordo. Sembra assurdo pensare che una persona si innamori di uno sport, come tifoso e come scrittore a tempo perso, partendo da qualcosa che ha vissuto in un’età troppo giovane per poterla raccontare. Eppure, in parte, è andata così. Il nome Costa Rica nella nostra casa, è rimasto legato a quei giorni dell’estate del 1990. Le Notti Magiche, le ricordano tutti, in special modo per il sogno di vedere la nazionale di Vicini trionfare nel Mondiale casalingo. Sogno spezzato ai rigori della semifinale di Napoli; ma la storia che coinvolge il nostro territorio non ha gli azzurri come protagonisti. Bensì i Ticos del Centro America. Formazione esotica e sconosciuta, guidata da quel mago di Bora Milutinovic. Ecco un altro nome che ogni tanto riaffiora.
Milutinovic: giramondo della panchina. Uomo dei miracoli calcistici in giro per il globo. E, se è vero che i suoi successi sono quasi tutti circoscritti nel suo periodo messicano, è altrettanto vero che di storie come quella del Costa Rica capitano di rado. Qualche foto, un pallone firmato perso tra i meandri della cantina, i gagliardetti. E i nomi: sparsi nel cassetto della memoria. Bora, Voltaggio, Conejo, Medford, Scozia, Svezia, Genova. Mettere insieme i tasselli non è semplice. Anche perché, dai racconti, invece che sette giorni in val Lemme, sembra sia durato un mese. L’entusiasmo dell’impresa, l’organizzazione, le partite contro l’Inter e quella saltata con la Samp. La sfida con i ragazzi del posto. La coda di macchine che si arrampica fino al campo da calcio. Un altro mondo! Ve lo immaginate il Canada o l’Ecuador, tanto per parlare di squadre minori, venire in ritiro ora dalle nostre parti? I meriti sono di molti. Dal mio punto di vista famigliare, non posso che ricordare Giuliano Guido e due persone, due brave persone (dove brave, credetemi, non è usato a caso), come Vittorio Guido e Tarcisio Persegona. Senza dimenticare le autorità politiche locali e tutti coloro i quali hanno reso possibile questo piccolo spicchio di Mondiale in val Lemme.
Non potevo raccontarlo in prima persona. Per questo, lo spunto di Italia ‘90 diventa l’occasione per raccontare la storia dei Ticos al campionato del Mondo. E se quello del Qatar non è stato un successo, basterà aspettare quattro anni. Il Costa Rica stupisce sempre. Per conferma, basta recarsi nella caotica Città del Messico, alla ricerca del vecchio Bora.
Esiste un filo sottile e impercettibile che collega gli altopiani mesoamericani con un impervio villaggio delle Alpi Dinariche, passando per un paesino dell’Appennino ligure–piemontese. Il suo colore, rosso fuoco, d’improvviso cambia tonalità, trasformandosi in bianco e nero. Magia? Forse sarebbe il caso di chiamarla scaramanzia. È una storia di fine anni Ottanta, che narra dell’impresa di un pugno di underdog, che, nel giro di pochi anni, sarebbero passati da simpatici carneadi a presenza fissa alle ultime edizioni dei Mondiali di calcio. Inclusa quella che sta per iniziare. Il Costa Rica.
L’uomo venuto da lontano, come lo canterebbe Paolo Conte, si presenta a San Josè tre mesi prima della Coppa del Mondo del 1990. Avvolto da quell’alone di mistero che solo un personaggio sbucato dalle aspre montagne balcaniche possiede. Si chiama Velibor Milutinovic, ma per tutti è Bora. Nomade del pallone, venuto al mondo dove oggi corre un confine pieno di tensioni tra Serbia e Bosnia. Da calciatore è fratello meno celebre dei nazionali Milos e Milorad. Il football lo trascina, come la corrente di un fiume in piena, dai prati di casa sino al Messico. Conosce l’amore e decide di fermarsi, diventando una sorta di mago della panchina. Spinge la Tricolor a un rigore dalle semifinali del Mundial casalingo nel 1986, poi una comparsata a Udine sembra troncargli la carriera di allenatore. Il destino in questo racconto gioca un ruolo decisivo. Fatto di nomi e luoghi che vanno e vengono, spariscono e ritornano d’improvviso. E allora il Fato decide che l’Italia, terra di grande delusione dopo l’esonero a casa Pozzo, dovrà essere la porta del rilancio per Bora. La patria dell’impresa, talmente grande che, qualche anno fa, il cineasta Miguel Alejandro Gomez, le ha dedicato una pellicola dal titolo tanto scontato, quanto evocativo: Italia ‘90.
E il remoto paese degli Appennini? Si chiama Voltaggio, lembo appenninico dell’alessandrino; ed entra in scena ancor prima del miracolo Costa Rica. Un passo indietro. Pensare ai ritiri delle nazionali ai giorni d’oggi e paragonarli a quelli di trent’anni fa è pura fantascienza. Hotel blindati, sicurezza da Capi di Stato, allenamenti segreti per tenere fuori le spie. In un’epoca così lontana da quella attuale, a un gruppo di uomini col pallone nel sangue nasce l’idea di creare un mini ritiro per una delle selezioni che faranno parte del Girone C, quello che si disputerà tra Torino e Genova. I soldi sono pochi, ma l’entusiasmo non manca. Si forma un comitato; si cercano gli sponsor e si incrociano le dita per il sorteggio, che recita: Brasile, Svezia, Scozia e Costa Rica. La Verdeoro di Lazaroni e gli scandinavi di Brolin vengono scartati subito. La stessa Scozia preferisce la riviera ligure e allora tutti gli sforzi si concentrano sui Ticos. In realtà, ci sarebbe Mondovì in prima fila, ma alla fine si riesce a strappare una promessa. Sette giorni in alta val Lemme. Suggellati da un’amichevole con una squadra di Serie A. Arriva l’Inter del Trap e una vallata di un migliaio di abitanti si ferma per il calcio. I centroamericani vengono accolti come eroi da una comunità che ha sempre vissuto il pallone come un’eco lontana dei grandi squadroni metropolitani. La passione carica i carneadi di San Josè, un gruppo di ragazzi che giocano nel locale campionato e che nessuno conosce. Forse, nemmeno i loro avversari. Al debutto,
a Marassi se ne accorge la Scozia, punita da un lob di Cayasso e dalle parate del portiere Conejo. Al Delle Alpi, per la seconda gara contro il Brasile, ecco entrare in scena l’elemento irrazionale. La logica dello sport contro l’illogico del tifo, misto a credenza popolare. All’ingresso in campo qualcosa non torna. Dov’è finito il rosso dei centroamericani? Eppure quelle maglie, quelle righe, appaiono famigliari a molti, a Torino e dintorni. L’enigma lo svelerà, anni dopo, sempre lui, questo giramondo delle panchine specializzato nelle missioni impossibili. Fan sfegatato del Partizan e convinto di poter raggiungere gli ottavi solo con i colori bianconeri dei Grobari indosso, mobilita mezza Europa per avere quelle benedette magliette. Da Belgrado arriva un no secco; ma Giampiero Boniperti, altro romantico del pallone avvezzo ai riti e alle scaramanzie, viene in suo soccorso. Negli spogliatoi arrivano 44 divise della Juve, che vestiranno i costaricensi sia nell’onorevole sconfitta contro i brasiliani sia nella storica gara contro la Svezia. A Genova il Ferraris è tutto per loro. I ragazzi, che nei giorni del ritiro giravano tra gelaterie e bar come un’accolita di amici in gita, vengono letteralmente adottati dalla gente del posto. In tanti si recano allo stadio per tifare i nuovi idoli. E Milutinovic, che di pallone mastica parecchio, prima di entrare in campo si presenta ai giornalisti sorridendo. Ci vediamo a Bari tra qualche giorno. Al San Nicola sono in programma gli ottavi di finale. Bisogna battere gli svedesi e questa Juventus mesoamericana non tradisce le attese. Flores pareggia la rete di Ekstrom; poi entra l’uomo degli ultimi minuti: Hernan Medford. Spacca la partita, segna la rete decisiva e qualifica i suoi. Al fischio finale è un tripudio, ma Bora, che in cuor suo ha capito che la festa termina quella sera, ammette. Senza Conejo (il portiere titolare infortunatosi) non passeremo. Ha ragione anche stavolta: la Cecoslovacchia segna 4 gol e li rimanda a casa.
Trascorrono dodici anni di buio, dove la parola mondiale resta tabù. Di fronte a Messico e Stati Uniti sembra impossibile competere, eppure nel 2002 rientrano nel tabellone principale. Il ritorno tra le finaliste in Estremo Oriente è merito – leggere alla voce destino – di uno dei ragazzi del ‘90. Brasiliano di nascita, trapiantato in Centroamerica: Alexandre Guimaraes. È il CT che li guida in Asia, qualificandosi dopo aver battuto i messicani a casa loro, in quello che, nei dintorni dello Zòcalo, hanno ribattezzato Aztecazo. E siccome le coincidenze sono il nodo conduttore di questa storia, nel gruppo, insieme alla Turchia e a Ronaldo e soci, trovano la Cina. Alla prima partecipazione e allenata da…. Milutinovic. Il serbo, questa volta, non può compiere un’altra impresa, ma ostruisce la strada per gli ottavi alla sua vecchia squadra. I rossi di San Josè, infatti, escono dal Mondiale a causa della differenza reti. Colpa di quel gol del turco Umit a una manciata di minuti dalla fine dell’ultima gara contro i cinesi. Rabbia e delusione vanno assorbite. Il ritorno di Guimaraes, quattro anni dopo, permette di centrare l’approdo in extremis a Germania 2006. Dove, nonostante la stella di Paulo Wanchope, vengono subito eliminati.
Per il risveglio occorre saltare un giro di giostra, quello mancato in Sudafrica. Nel 2014, i legami con gli eventi italiani ritornano preponderanti. In Brasile, a guidare in campo la squadra che, ancora oggi, ha fatto la storia del calcio locale, c’è Celso Borges. L’uomo con più presenze in nazionale, ma, soprattutto figlio di quel Alexandre Borges Guimaraes che allenava i Ticos negli anni passati e che, con il 9 sulle spalle, stupiva tutti nel mondiale di casa nostra. Italia, ancora Italia. Nel girone, seconda gara. Gruppo della morte, con inglesi e uruguagi. Tre squadre, sette coppe in bacheca. Vane le speranze di proseguire l’avventura. Gli dei del futbòl, però riservano sempre sorprese. Con il colombiano Pinto come allenatore, Ruiz e Campbell stelle in campo, i centroamericani si qualificano come primi. Umiliano l’Uruguay, campione continentale, e scherzano con gli azzurri dei presuntuosi Cassano e Balotelli. Eguagliano gli eroi di ventiquattro anni prima; ma per oltrepassare le frontiere del Mito ci vuole qualcosa in più. E allora, ecco che il mondo scopre Keylor Navas, portiere rivelazione, che blinda il pari contro la Grecia e, con un uomo in meno, trascina la qualificazione ai rigori. Dove respinge il penalty di Gekas: che significa quarti di finale. Il 5 luglio, a Bahia sono sempre i guantoni di Keylor e la buona sorte a portare l’Olanda ancora ai calci di rigore. Ma, se Milutinovic era uno sciamano carismatico, allora Louis Van Gaal è il genio che tira fuori dal cilindro la mossa giusta al momento giusto. A pochi secondi dalla fine dei supplementari, manda in campo il secondo portiere Krul. L’azzardo riesce. Ruiz e Umaña si fanno neutralizzare i tiri e il Mundial finisce qui.
La campagna di Russia si rivela una mera comparsata. Un punto in tre partite contro Brasile, Svizzera e Serbia. I miracoli sembrano finiti, la golden generation di un tempo pronta a sparare i suoi ultimi colpi. Qualche lampo si è visto in Qatar, dentro un girone troppo difficile per ripetere l’impresa: Spagna, Germania e Giappone. Un inizio shock, con 7 gol subiti dalle Furie Rosse, poi la reazione d’orgoglio. La vittoria contro i giapponesi. E quei 5, incredibili minuti nella gara con i tedeschi, quando la classifica recitava “secondo posto”. Sogno impossibile, ma non importa. I tifosi applaudivano tutti. Soprattutto, il vecchio Borges. L’uomo che riannoda quel filo partito oltre trent’anni fa. Le notti magiche tra Genova e gli Appennini, il papà in campo a firmare la prima impresa made in Ticos. In panchina, uno stravagante gitano con la passione per gli scacchi. Il vecchio CT serbo non è riuscito nel benedire una impresa che sarebbe stata enorme. Nominato consulente per la Coppa del Mondo ‘22, Milutinovic ha trascorso gli ultimi anni facendo la spola tra Messico e Medio Oriente. Qualcuno dice di averlo visto fare capolino tra gli spalti a tifare per i centramericani. KForse è vero. O forse, resta un mistero. Uno dei tanti della sua romanzesca vita. Ci piace pensare che ci fosse davvero, negli stadi qatarini. Anche perchè, come scrisse The Guardian anni fa: It just won’t be the same without Bora [Non sarebbe stato lo stesso senza Bora].
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