CommerciantiDizionario

TOTTI POLLINI LEA, “A sciua d’a pasta fresca”

La “Signora della Pasta Fesca” si chiamava Lea ed era mia madre…Tutti a Serravalle
la chiamavano così e noi, di conseguenza, non potevamo che essere identificate
come “Le tre figlie della Pasta Fresca”. Qualcuno addirittura entrava un poco più
nello specifico e la chiamava “La signora dei tortellini” … Comunque sia, la differenza
era poca! La costante di questi due appellativi era la parola “SIGNORA” che portava
in sé un patrimonio di significati contrastanti… Col termine “sciua”, si volevano certo
esprimere stima e rispetto, ma si intendeva anche stigmatizzare una sorta di
distacco con cui ci si rivolgeva allora a chi era forestiero e in quell’Italia che stava
uscendo dal dopoguerra, provava a costruirsi un futuro in una terra lontana dalla
propria.
Ebbene, la mia famiglia apparteneva proprio a questo gruppo di persone che, per far
fronte ad un momento di grave difficoltà e risollevare le sorti di un destino avverso,
trovarono il coraggio di partire e di affrontare il viaggio che le portò a trapiantarsi
altrove. E Serravalle fu…il nostro altrove!
Vi arrivammo, stipati nella Topolino grigia di mio padre, dopo un interminabile
viaggio, in una giornata ventosa del 1957… Era il 21 giugno, quando imboccammo la
piccola salita di Via Palestro che si dirama, come allora, dietro alla Cappella della
Madonnetta del Ponte. Seguiti dal camion carico delle nostre povere cose, ci
fermammo davanti a un edificio giallo, di nuova costruzione e lì, all’ultimo piano,
c’era l’appartamento a strapiombo sul torrente che ci avrebbe accolti.
I miei genitori giunsero a questo approdo con due diversi stati d’animo… Lui,
coraggioso, curioso, spavaldo, aveva già lasciato il passato alle spalle ed era pronto a
rimettersi in pari col destino per riacciuffare la fortuna perduta…. Lei, più sensibile e
riflessiva, custodiva la sua terra e la sua gente nel cuore, proprio lì, dove il dolore per
il distacco e la preoccupazione per l’incerto futuro, stavano scavando una perenne
ferita.
Quando tutti i mobili furono scaricati e portati a dimora, toccò all’enorme gabbia,
piena di paglia, dove un gallo con le sue galline avevano inaspettatamente viaggiato,
dalla Romagna fin qua, sepolti fra mobili e scatoloni, a bordo del camion. Il vento
furioso di quella giornata di inizio estate fece immediatamente schizzare la paglia
ovunque, la spinse lungo la stradina senza sbocco, la fece rimbalzare e la sollevò in
un allegro turbinio … su, su, nell’aria, fino all’altezza della ferrovia, fino a scavalcare
le case e poi ancora oltre … in una danza incontrollata, sotto gli occhi dei vicini, che
avevano chiuso le finestre e dietro ai vetri guardavano increduli la scena. Mia
madre, raccontando in seguito quell’evento, ricordava divertita che, per giorni e
giorni, la succulenta paglia romagnola continuò a svolazzare lungo il ponte sulla
Scrivia, come se ingenuamente cercasse un’impossibile via del ritorno…
E la gabbia? Mentre la paglia esplorava spensierata i dintorni, gli uomini che si
occupavano del trasloco erano impegnati a farla passare da una rampa all’altra delle
scale, col suo carico di pollame impazzito, verso il solaio, luogo a cui era destinata.
Le difficoltà erano molte…così tante che a metà percorso, fu necessario segare le
gambe di legno per ridurre l’ingombro e favorire l’impegnativa ascesa… Detto fatto,
l’operazione ebbe inizio e lì, fra il rumore sordo e continuo della sega, lo strepitio
delle galline spaventate e le colorite, irripetibili imprecazioni che solo i Romagnoli
sanno coniare con tanta maestria… ebbene…mia madre raccontava ridendo che sul
pianerottolo una porte si aprì timidamente, protetta da una catenella di sicurezza…
Era la signora Roasio, famosa per avere i pavimenti più lucidi di tutta Serravalle, che
con un gesto secco richiuse immediatamente lo spiraglio, di fronte a quel putiferio di
segatura e di piume svolazzanti, col sottofondo di urla ed esclamazioni in uno strano
vernacolo sconosciuto.


Ci accompagnava, in questa nostra Odissea, Anna, la figlia minore di una sorella di
mia madre. Era stata inviata dai parenti, come aiuto e supporto alla famiglia esule,
per dare una mano nell’affrontare il periodo iniziale di assestamento. Poco più che
adolescente, era una ragazza bellissima (e lo è ancora oggi che non è più ragazza…)
che emanava un’allegria prorompente e contagiosa! Approfittando di un fascino
genuino, di cui era pienamente consapevole, non si stancava di lodare le gesta dei
due forzuti addetti al trasloco e li incoraggiava con grandi sorrisi a portare a termine
la loro missione. E questa astuta mossa fu provvidenziale, affinché la gabbia
giungesse finalmente a destinazione.
Il mattino successivo il gallo non fece mancare il suo gioioso saluto al giorno, in una
Serravalle ancora addormentata… e quella fu la sua ultima prodezza… Gli abitanti
del condominio, esaurita la pazienza, protestarono, mia madre si scusò e il gallo finì,
per primo, nella pentola… Bisognava pur mangiare qualcosa! Così, fra mille
difficoltà, ma corroborati da un brodo gustoso e genuino, iniziò la nostra vita in un
paese stretto fra il castello e il torrente, così lontano dal luogo natio dove la terra
piana spalancava intorno grandi e spaziosi orizzonti in ogni ora del giorno e dove il
sole galleggiava nel cielo per interminabili, languidi tramonti.
Mio padre, instancabile pioniere, ripartì quasi subito, dopo un breve periodo di
lavoro presso il Frantoio Guido… Aveva subodorato la possibilità di trovare fortuna
in Liguria, dove stava iniziando la costruzione dell’Autostrada dei Fiori. E a quel
progetto agganciò la sua vita lavorativa… Scavando buche per i piloni dei viadotti
autostradali con enormi Caterpillar, realizzò il suo sogno… Ma ci vollero anni…anni di
tentativi e sacrifici… Così mamma Lea dovette darsi da fare. Aveva un sogno, quello
di crescerci e di farci studiare… era una guerriera e ce l’avrebbe fatta… ma ancora
non lo sapeva!
Un sabato mattina era andata a fare la spesa da Ravazzano, il mitico Cisculu, che
aveva il suo prestigioso negozio proprio lì, dove si apre la Piazza del Monumento, di
fianco alla Farinata. Ad un certo punto entrò un fornitore che cominciò a scaricare
dei vassoi pieni di una strana pasta, avvolta nel cellophane trasparente. Erano
tortellini, forse i primi che venivano fatti in modo semindustriale, per essere
smerciati nei negozi di alimentari più prestigiosi. E Cisculu, orgoglioso di questa
novità, era intento a decantare le proprietà di quella merce rara, che solo lui poteva
offrire alla clientela serravallese… E le massaie, tutte ad ascoltare a bocca aperta,
allungavano il collo per guardare. Fu così che fra le varie esclamazioni di stupore
delle donne…-Ohhh!!-…-Uhhh!!-…-Cos c’l’è?-…-C’me c’as mangia, sta roba?-, si alzò
la voce timida di mia madre: -Sono tortellini, quelli!- disse col suo accento
romagnolo – Io li faccio tutte le domeniche…- La platea intorno ammutolì, mentre
tutti la guardavano increduli… Cisculu, preso in contropiede, perse per un attimo
l’aria trionfante, ma subito si riprese e lanciò la sua provocazione: -Ah, sì? Allora me
ne faccia, SIGNORA! E me li porti sabato prossimo!!!-
E così fu. Il sabato successivo mia madre si presentò puntuale nel luminoso negozio
dei Ravazzano con quattro chili di tortellini gonfi e profumati… e quando li svelò
erano tutti schierati in maniera perfetta e la pasta non era lucida come quella dei
tortellini della settimana precedente, che sembravano di plastica, ma aveva un bel
colore giallo opaco, tipico della pasta tirata a mano col mattarello. In men che non si
dica i tortellini andarono a ruba fra le massaie che erano in negozio in quel
momento e mia madre tornò a casa con una paga decorosa, decisa su due piedi dal
buon Cisculu, e con un ordine per la settimana successiva, e mentre camminava
lungo lo stretto marciapiede, coi suoi vassoi vuoti nella borsa di stoffa, sentiva una
speranza che si faceva largo a illuminare il suo cuore, provava una leggerezza
sconosciuta che la faceva quasi volare… Aveva fatto centro… Aveva intravisto una
possibilità… Quello che al suo paese tutti sapevano fare, qui era una novità e lei,
guerriera romagnola, non si sarebbe certo fatta sfuggire questa opportunità!
Le cose andavano bene… anche la signora Roasio mangiava i suoi tortellini la
domenica… la voce si sparse e in breve mia madre capì che poteva tentare il passo
successivo… Aprire un laboratorio! Dopo pochi mesi ci trasferimmo in Via Berthoud,
al numero 40, in un appartamento col negozio attiguo, che in passato aveva ospitato
una rivendita di stoffa. Era proprietà della signora Pierina Tinelli, che abitava al terzo
piano e che noi chiamavamo “La Padrona”. Lei e suo marito, il Sig. Battaglia, di cui
ricordo i vivissimi occhi azzurri e i poderosi baffi brizzolati, erano una coppia distinta
e molti anni dopo ci avrebbero venduto quei muri, dove mia madre e mio padre
rimasero fino all’ultimo giorno.


Era il posto perfetto! Proprio di fronte al municipio e al Forno dei Puncrouni, di
fianco al Bar Traverso, a poca distanza dalla Farmacia Balbi, dalla Tabaccheria e dalla
Chiesa Parrocchiale e, proprio lì davanti, c’era l’unico slargo considerevole dello
stretto marciapiede, che permetteva alla gente di soffermarsi a guardare la
minuscola vetrina, dove mia madre esponeva con cura tortellini, passatelli,
garganelli, tagliatelle… E faceva tutto a mano! Nelle lunghe notti passate in cucina a
lavorare si faceva compagnia con la Signora Gatti, sarta sopraffina, che al di là della
ferrovia, cuciva fino a tardi. Ogni tanto le due donne si fermavano, alzavano la testa
e, spostando la tendina delle finestre illuminate, si regalavano un saluto con la
mano, complici e felici, mentre intorno il mondo dormiva…
Mia madre ben presto imparò a fare i ravioli, interrogando per la ricetta le donne del
posto e conobbe la signora Gina, un’anziana vedova che abitava nella salita dietro
alla Trattoria Marina. Ogni settimana le mani nodose e sapienti della Gina
producevano i “gnocchetti”, una pasta secca a forma di cornetto, tipica di queste
zone. Mia madre andava a ritirarli la domenica mattina, per poterli offrire, freschi e
profumati di grano, ai clienti che li avevano ordinati. Ha sempre conservato un
tenero ricordo di quegli incontri. Quando arrivava, alle sei del mattino, trovava la
stufa accesa e il caffè appena fatto, due tazzine e qualche biscottino nel vassoio…
Era un modo semplice per augurarsi buona giornata, per offrire un sostegno
materno e un attimo di sollievo a una giovane donna che sfidava il destino, armata
solo delle proprie braccia e di tanto coraggio.
Ripensando alla vetrina del nostro negozio, non posso fare a meno di ricordare quel
Giovedì Santo… Non ricordo di preciso l’anno, ma ad un certo punto mia madre si
rese conto che la sera del Giovedì Santo, le vetrine dovevano farsi belle, perché i
Serravallesi passavano ad ammirarle durante la visita al Santo Sepolcro. Una
tradizione sconosciuta per noi, ma ci preparammo come meglio potevamo… In
vetrina la mamma distese la tovaglia buona, tessuta a mano nei telai romagnoli e
sopra dispose i piatti bianchi coi fiorellini rosa, che aveva ricevuto raccogliendo i
punti del dado Knorr…o Star… non ricordo quale dei due. In ogni piatto c’era un
trionfo di vari tipi di pasta… disposta in un ordine quasi perfetto e al centro, un vaso
con qualche ramo di fiori di pesco, che io e le mie sorelle avevamo staccato di
nascosto durante una passeggiata a Cappellezza (lo sapevamo che non si doveva,
ma…). Ebbene, noi quattro ci appostammo dietro alla tenda che separava il negozio
dall’appartamento, per assistere allo spettacolo dall’interno… Fu un successo!!
Davanti alla vetrina illuminata e linda la gente si accalcava, sostava per lunghi minuti
e indicava, commentava, esclamava e l’espressione dei loro volti non lasciava spazio
a dubbi… Io ero ancora piccola, ma sento ancora il calore dell’abbraccio che mi univa
a mia madre e alle mie sorelle … forse non capivo fino in fondo, ma sentivo che quel
fremito di gioia che ci faceva vibrare, aveva a che fare con la nostra vita… Ci
sentivamo finalmente accolte… ed eravamo felici!
Dopo una decina di anni di lavoro a mano, mia madre fece il passo successivo e
comprò le macchine… a rate le comprò…e non ci dormiva la notte… ma non rinunciò
mai alla genuinità degli ingredienti! Quanti ricordi legati a quegli anni! Ricordo il
signor Gigi Bovone che il sabato mattina portava le uova, il signor Brugnatelli, papà
della Dott. Tiziana, che portava le bombole del gas e i sacchi di farina, la Iside che
procurava la verdura, il macellaio Cavo, dove compravamo carne e salsiccia,
Ciasculu, che forniva il parmigiano e i salumi.

Da tempo una cara amica aveva cominciato a farsi avanti e a dare una mano. Era la
signora Gemma! E fu un valore aggiunto che fece la differenza!! Una gemma, nel
vero senso della parola!!! Sempre in ordine, con la sua capigliatura bionda, le mani
curate, i modi gentili, il sorriso pronto e una parola per tutti, arrivava nei momenti di
maggior bisogno e affiancava l’attività di mia madre con impegno, con autentico
entusiasmo…Grazie ai suoi consigli e a quelli del marito Renzo, che se ne intendeva
di cucina, la ricetta dei ravioli di mia madre si perfezionò e sono in tanti i Serravallesi
che ancora oggi ne ricordano il sapore unico e speciale. Per mia madre la signora
Gemma fu una sorella…una seconda mamma per me! Quanti ricordi … Attorno a
quel laboratorio, che in quegli anni è stato un fiore all’occhiello per l’intero paese, si
muoveva un’orchestra, si svolgeva un intreccio di vite che per tanti anni ha
contribuito a disegnare l’ambizioso progetto di una donna semplice e coraggiosa.
Quella donna era mia madre, si chiamava Lea ed era una guerriera che giunse a
Serravalle dove tutti la chiamavano “sciua”, perché non bisognava dar troppa
confidenza agli estranei, che a Serravalle ha combattuto e vinto la sua battaglia della
vita e che, dai Serravallesi, è stata accolta e aiutata con tanta generosità.
…E io avevo il dovere di raccontare la sua storia, perché possa essere ricordata!