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Una storia vera


Mio nonno Pietro mi raccontò per la prima volta questo fatto una sessantina di anni fa e nel corso del tempo me lo ha ripetuto spesso. L’ultima volta qui, a Serravalle, poco prima che morisse, piangendo ancora per il rimorso che non lo abbandonò mai.

Nel 1913, epoca in cui si svolgono i fatti che narrerò, in Calabria non era certo una rarità vedere ragazzini di dieci anni buttare il sangue sotto il sole o sotto la pioggia, sgobbando in una cava di pietra.
Pietro non era sfuggito a quella condanna e, già da tre anni ormai, passava le sue giornate alla cava, ora a spaccare pietre, ora a distribuire l’acqua agli spaccapietre adulti, ora a portare le carriole e gli altri attrezzi ove il caposquadra ne ravvisava la necessità.
Le sue mani erano diventate dure come sassi, il suo corpo asciutto e tozzo assumeva, via via che gli anni passavano, la forma scoliotica tipica dei ragazzi malnutriti e sottoposti a sforzi per dieci ore al giorno.
Pietro invidiava sinceramente i fratelli più grandi ch’erano andati a lavorare nel feudo del marchese.
Loro quanto meno non respiravano quella polvere che spesso lo faceva tossire e qualche volta sputare sangue.
Era il destino degli spaccapietre, gli avevano detto, si comincia presto ad avere la gola smerigliata dalla polvere e si finisce quasi sempre col morire soffocati e più si campa e più si soffre.
La scuola? C’era stato e aveva frequentato per tre anni la prima elementare.
Poi suo padre aveva trovato la soluzione per un asino come lui, mettendolo alla cava.
Pietro, però, non si lagnava del suo apparentemente ineluttabile destino di vinto. Nei pochissimi momenti liberi scorrazzava per le campagne, rubava le uova dai nidi, costruiva flauti, faceva il bagno nell’impetuoso torrente che costeggiava la cava, incurante dei gorghi che avrebbero trascinato sul fondo anche gli adulti più robusti.
Non aveva compagni. Nei momenti di libertà la sua immaginazione lo portava lontano, verso le montagne ove s’immaginava proprietario di un gregge di pecore.
Una domenica pomeriggio, era agosto e il sole non dava requie, si assopì all’ombra di un carrubo. Fu svegliato da uno strano verso. S’accorse d’avere accanto un uccello nero con le piume striate di bianco e di grigio, in grande difficoltà per via di un’ala rotta.
Il ragazzo si avvicinò cauto e scorse il sangue. Capì ch’era necessario far qualcosa subito. Portò l’uccello alla pozza e mentre questo, spaventatissimo si dimenava dando fondo alle sue ultime energie. Lavò la carne lacerata e tolse alcuni pallini di piombo dalle piume e dalle carni di quella strana enorme gazza. Poi, con un lembo della camicia stracciato frettolosamente, avvolse l’ala fino ad immobilizzarla. Come un fulmine corse fino a casa e con dei legni improvvisò una steccatura di fortuna.
Si inoltrò nuovamente nella macchia e con dei rami raccattati a terra costruì una gabbia nella quale rinchiuse l’uccello, una ciotola d’acqua e un po’ di becchime.
Quella notte non riuscì a dormire e più volte se n’andò nel folto degli alberi a vedere se nessun animale selvatico avesse fatto danni a quell’improvvisato rifugio e al suo ospite.

Da allora Pietro e la pica diventarono inseparabili.
L’uccello accudito amorevolmente guarì bene e quando il ragazzo, per ridargli la libertà, provò a farlo volare, l’uccello s’alzò in cielo e volò felicemente verso il tramonto. Pietro pianse per il distacco. La gazza, tuttavia, tornò dopo pochissimi minuti e saltellò vicino a Pietro che a quella vista smise immediatamente di piangere.
Nei giorni che seguirono, il ragazzo patì le pene dell’inferno, non tanto per le fatiche alle quali ormai s’era abituato, quanto per il tempo che aveva deciso tutt’a un tratto di scorrere a rilento.
Il giorno non finiva mai.
La pica ogni tanto sorvolava la cava, alta nel cielo. Nei rari momenti di pausa Pietro emetteva un fischio particolare e immediatamente un fischio identico tornava, quasi una eco precoce. Subito dopo il grande uccello nero s’alzava in volo e sorvolava la cava due o tre volte. S’era creata una sorta d’intesa, per cui l’uccello non scendeva mai a terra ma faceva molte evoluzioni per farsi notare dal suo amico.
Sera dopo sera Pietro s’accorse che quell’uccello era prodigioso, perché imitava alla perfezione qualsiasi suono.
Con pazienza Pietro stabilì alcune regole, per cui l’amico pennuto al suo comando faceva ora il verso dei cardellini in gabbia, ora quello dei passeri, ora modulava il motivetto d’una canzone. E poi un giorno disse: Pietro!
A quel punto al ragazzo sembrò di toccare il cielo con un dito e permise all’uccello di stare sulla sua spalla mentre andava per le vie del paese.
Gli atri ragazzi, presi dalla curiosità cominciarono a cercarli e in breve, i due solitari amici, si ritrovarono al centro dell’attenzione di tutto il paese.
Passavano così le serate e così la fatica del giorno premeva di meno e ancor meno si faceva sentire quel disperato desiderio di fuggire, andare in montagna e diventar pastore.
Poi, quella maledetta domenica mattina, accadde ciò che non doveva accadere.
Il marchese con tutta la famiglia scese in paese per recarsi alla Messa Grande. Il marchesino, che aveva la stessa età di Pietro, notò l’animazione che c’era sul sagrato a causa di quel prodigioso uccello e disse al padre: «Lo voglio».
Fu così che il marchese, informatosi da un suo tirapiedi, fece chiamare il papà di Pietro e gli diede tre lire in cambio dell’uccello.
Dire cosa accadde dopo non è agevole per me e non lo fu mai per mio nonno che, quando mi raccontava questo fatto, piangeva rivivendolo, nonostante avesse ormai ottant’anni.
La pica fu presa e legata a una sbarra del landò del marchese. Pietro cadde in una tale disperazione che corse via col pensiero d’andarsi ad annegare nei gorghi. Corse, urlando la sua rabbia, fino a quando un’idea terribile gli attraversò il cervello. Sapeva che non avrebbe mai più potuto avere quella pica, che se anche fosse corso a liberarla gliel’avrebbero ritolta, sapeva che ad ogni sua protesta si sarebbero aggiunte le cinghiate del padre che per tre lire avrebbe dovuto lavorar tre mesi. Era dunque conscio dell’impossibilità di ritrovare la sua felicità… e quella del suo più caro amico.
Allora si appostò sul piccolo promontorio che sovrastava la strada che conduceva alla villa del marchese e, quando la sagoma della carrozza si delineò sullo sfondo emise il fischio di richiamo.
La pica che, fino a quel momento se n’era stata buona e frastornata, fu presa da un incontenibile fremito, col becco sciolse il maldestro legaccio che le serrava una caviglia e volò via lasciando il marchesino in lacrime.
In un attimo fu sulla spalla di Pietro che la prese, s’addentrò fra gli alberi, le accarezzò a lungo la testa e il corpo piangendo disperatamente e infine… le tirò il collo. «Non sarai di nessuno», urlò. Scavò con le mani una piccola fossa e la seppellì. Poi cominciò a farneticare per immaginare un modo rapido di togliersi la vita. Tanto lo avrebbe ammazzato di botte suo padre o qualcuno degli uomini del marchese, non appena avessero capito che la pica era tornata da lui.
Il dolore, immenso, per ciò che aveva fatto, non lo avrebbe abbandonato per tutto il resto della sua vita.
Ritornò a casa pronto a morire, ma non gli accadde nulla, perché nessuno seppe mai ove fosse finita la pica del marchesino.

Benito Ciarlo

Calabrese di Montalto Uffugo (CS), dov'è nato nel 1950. Vive a Serravalle Scrivia (AL) dal 1968.