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Il Borgo delle tre Chiese all’ombra di una collina chiamata Castello

Il “Borgo delle tre Chiese” di Mino Schiaffino

L’amor che m’arse in cor da giovinetto,
non è da or che me ne accorgo, fu per lo Scrivia, il Castello ed il Borgo
Ancor l’asilo frequentavo quando udii che il sito a me più bello
fu Borgo medievale cinto da mura con il Castello.
M’invescendai di destrieri e cavalieri,
principesse sui manieri.
 Quel loco fu a me tanto caro
che avrei  impegnato ogni denaro
per tastarlo in lungo e in largo
finché mi divenisse chiaro.
 Conosciute a menadito le viuzze i suoi anfratti, i misteri la sua storia,
avrei fatto poi baldoria.
Strabuzzai ben bene gli occhi,
come insegna la Finocchi
e per guardare con più sballo azionai il tergicristallo.

Pur abitando un po’ lontano, al 35 di Via Molino dove nacqui nel gennaio ’56, mi capitava di frequentare spesso l’antico borgo per “visita parenti”. Mia nonna paterna Franca abitava nei pressi della Chiesa Collegiata, Emma  sorella di mia nonna materna Amalia aveva un negozio di alimentari proprio vicino alla Chiesa dei Rossi e Bianca, parente meno prossima,  stava  sotto alla Chiesa dei Bianchi.

Queste tre Chiese erano armoniosamente dislocate una al centro, le altre due ai limiti estremi del borgo medievale. Quando entravo in ognuna di loro rimanevo estasiato: i quattro evangelisti imponenti ed austeri mi guardavano dall’alto nei Rossi, enormi affreschi colorati risplendevano sul soffitto della Collegiata, la statua di Sant’Agostino con il  diavolo che accoglieva i fedeli all’ingresso dei Bianchi.

L’ospedale San Giuliano di Suor Luciana ed i tre campanili controllavano dall’alto le vetuste abitazioni. Nei giorni di festa le loro campane riempivano il borgo di un armonioso e piacevole frastuono che risuonava per i vicoli. L’abitato medievale, sorto mille anni prima, era stato incastonato a mo’ di rubino tra la Collina del Castello, che incombeva come un enorme masso di tufo, e lo Scrivia che correva giù in basso. Il nucleo originario primitivo del Borgo era stato concepito con isolati costituiti da case a corte mono o bifamiliari derivate dalle domus romane visibili anche a Libarna.

Ricostruzione di due isolati costituiti da domus romane, lungo il Decumano Massimo a Libarna. Da “Augusta a Cesarea, quarant’anni di ricerche, scavi, scoperte 1950 – 1989” di Silvana Finocchi, Edizioni Nautilus Torino, 2007.

Due vie principali  pianeggianti e parallele intersecate da una trentina  di vicoli ad andamento inclinato verso il sottostante torrente costituiscono la  rete viaria.

La mia famiglia, composta da mio fratello Lorenzo, mamma Maura e papà Andrea, era originaria del Borgo delle tre Chiese come la maggioranza dei Serravallesi. Amalia, nonna materna, viveva con noi; quando andava a far visita a sua sorella nella parte vecchia del paese, la accompagnavo molto volentieri. Avrei così potuto osservare da vicino quelle viuzze  strette lastricate con i ciottoli dello Scrivia, quelle case colorate adese le une alle altre molto diverse dalle vie e dalle abitazioni della mia zona. Percorrevamo Via Molino, un tratto di Via Berthoud, poi dopo le Aie, lasciata la mano di Amalia m’infilavo su per Vico del Diavolo (Vico Figini) che portava direttamente nella parte del pese che tanto mi piaceva. Nonna Amalia avrebbe preferito tirare dritto nella pianeggiante via Berthoud dove c’erano i rinomati negozi serravallesi, invece per farmi contento sbuffando mi veniva dietro.

Sbucavamo direttamente di fronte alla Chiesa dei Bianchi  nella omonima piazza. Piccola, raccolta, sormontata dall’Ospedale San Giuliano, la Piazzetta dei Bianchi era ed è molto suggestiva, una vera bomboniera. Oltrepassato l’affittacamere di Stefano Cambiaggi (amico d’infanzia di mio papà), camminavamo per Via Tripoli, dopo poco costeggiavamo  la canonica abitata dal Parroco Don Boveri e di lì a qualche anno dall’indimenticabile Don Lino. Di fronte si apriva il campetto di calcio dove in gioventù sudai con gli amici l’acqua bevuta nel rubinetto di Piazza dei Bianchi. Passando davanti alla Collegiata  entravamo un momento in Chiesa. Amalia si metteva un velo scuro sui capelli, s’inginocchiava nell’ultima panca e bisbigliava veloce una preghiera nella lingua parlata due millenni prima nella vicina Libarna: il latino.

A sinistra la facciata della Collegiata, poi via Tripoli e in fondo Piazza dei Bianchi. Foto Mino Schiaffino

Usciti sulla Piazza mi precipitavo in Salita  Ghiacciaie a suonare il campanello di Nonna Franca che dopo poco si affacciava alla finestra.

Scambiate due parole scendevano nello stretto Vico del Forno e dopo poco, oltrepassate le colonne romane dei Rossi, ci appariva il negozio di alimentari di mia zia Emma e sua figlia Gianna. A riceverci era un profumino di formaggi, salumi, stoccafisso appesi al muro o sistemati sul marciapiede. Ci facevamo vedere dalla vetrina per entrare poi direttamente nel retro passando per una porticina nel Vicolo dei Rossi. Scesi due alti gradini ci trovavamo in uno stanzone quadrato vecchio di secoli con un soffitto basso a forma di vela dal quale pendevano anelli di ferro. Il pavimento era opaco, consunto, tre finestrelle con inferriate facevano entrare una luce fioca che obbligava a tenere accese le lampadine anche di giorno.

Le due sorelle  entrambe alte e magre, parlavano un po’ in dialetto dei loro acciacchi. Emma se ne stava sempre seduta, aveva passato una vita a servire i clienti dietro al bancone. Amalia osservava Gianna sempre intenta a preparare manicaretti che avrebbe messo in vendita nella piccola bottega frequentata prevalentemente da immigrati dal sud alloggiati nelle case di Porta Genova. Il tempo di scambiarsi ancora due novità sul paese e risalivamo i due gradini per ritornare nell’era moderna per poi incamminarci verso casa.

Al ritorno Amalia mi supplicava di passare per  Via Berthoud per evitare i saliscendi dei vicoli di Via Tripoli e per dare un’occhiata alle innumerevoli vetrine delle botteghe che, una vicina all’altra, si susseguivano per tutto il paese. Erano negozi DOC, pietre miliari che insieme alle tante industrie avevano fatto la fortuna di Serravalle considerata a quei tempi una piccola Parigi. Mia nonna conosceva e salutava praticamente tutte le persone che incontravamo per la strada. Era nata e cresciuta in Vico al Castello e dopo essersi sposata era andata ad abitare in piazzetta Bonaventura, di fronte alla Casa del Giovane, dove era nata nel 1924  mia mamma  Maura. Con  suo marito  Giacomo, muratore, si erano  poi trasferiti in via Molino dove, con mille sacrifici, si erano costruiti la casa. Mamma Maura maestra elementare, detta ‘a Ganceina’ come  tutti i componenti  della sua famiglia, parlava un dialetto stretto ricco di espressioni antiche, per me spassose. Di me, che mangiavo velocissimo e solo quello che mi andava, diceva: Mino u ga  a bughela drita in cu in sciasu in ta gua.

Papà Andrea, di origini Camogline da parte paterna, era cresciuto anche lui tra le tre Chiese all’ombra del Castello. Trascorse un’infanzia spensierata con gli amici del borgo della compagnia del CUGNO: Compagnia Unica Giorno e Notte  Ovunque. L’ 8 settembre del 1943  a ventun anni, durante il servizio militare, fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania dove rimase in campo di concentramento per 24 mesi.

Di tanto in tanto, alla domenica, si andava a far visita a Nonna Franca. Arrivati in Salita Ghiacciaie la trovavamo, nei pomeriggi estivi, seduta sotto casa, sulla sua poltroncina di vimini, all’ombra del Castello. Passava il tempo lavorando a maglia e chiacchierando con i vicini, la famiglia Solavaggione, detti i Sola, la famiglia Grosso e Marcellino Romagnoli che abita lì ancora adesso. Mi facevo raccontare quando, tempo di guerra, durante i bombardamenti andavano a rifugiarsi in una delle due Ghiacciaie scavate nel tufo della collina, lei mio nonno Lorenzo e le mie tre zie Maria, Bigia e Antonietta.

La mattina di Natale del 1943, pronti per il tradizionale pranzo, sentite suonare le sirene che avvertivano dell’arrivo dei bombardieri, scapparono in quel rifugio dove rimasero insieme agli abitanti del rione, per alcune ore. Fu su Salita Ghiacciaie che mia zia Bigia, venuta a sapere che un soldato tedesco abitava nella città dove suo fratello Andrea era prigioniero, gli consegnò un pacco di viveri da portargli. Fu sempre su quella salita che mio nonno Lorenzo vide arrivare dalla Germania suo figlio Andrea, dopo due anni che non lo vedeva.

In quel tempo il borgo era  come un unica grande famiglia. Le strade erano piene di bambini, figli un po’ di tutti. Invidiavo un po’ i  compagni di scuola e gli  amici che abitavano in quella parte del paese. Là  si poteva stare senza pericoli. C’erano mille anfratti, portoni, nascondigli ideali per giocare. C’era la Casa del Giovane, il Teatrino dei Luigini, il campetto da calcio. Le attività principali del paese era tutte là: la posta, la banca, la farmacia, la caserma dei carabinieri con le carceri, le Chiese. Anche le mie attività principali erano tutte là: ero chierichetto, cantore, aspirante, frequentavo messe, vespri, benedizione delle case, processioni, partecipavo a tornei estivi di calcio, di calciobalilla, di pingpong, gare di figurine, di cerbottane ecc. Si cresceva in un ambiente semplice e sano dove non ci si annoiava mai e si diventava amico di tutti.

“All’ombra di una collina chiamata Castello”.
Disegno di Mino Schiaffino

Passarono gli anni delle elementari e quelli delle medie in cui io e Lorenzo fummo assidui frequentatori del borgo delle tre Chiese all’ombra del Castello. Quando arrivarono gli anni delle superiori, passammo il testimone alle nuove generazioni. In quegli anni si videro entrare per la prima volta nella Casa del Giovane anche le ragazze insieme a tanti cambiamenti della società dopo il ’68. Per molto tempo ancora la gioventù Serravallese frequentò quei luoghi, fino alla prima decade del terzo millennio. Con la costruzione della nuova moderna Chiesa di Ca’ del Sole corredata di campetto da calcio super bello, campo da basket, sala convegni e vari centri ricreativi, fu segnato il destino del mitico Oratorio della Parrocchia di Piazzetta Bonaventura. Questo fu destinato ad altri usi come la distribuzione di pacchi alimentari e l’insegnamento dell’italiano agli stranieri, arrivati nel frattempo numerosi, insieme alla povertà che il boom economico degli anni 60 sembrava aver sconfitto per sempre. La famosa Casa del Giovane voluta dal compianto Don Guerra, inaugurata il 19 novembre del 1950, sorta e sviluppatasi dove era necessaria sembra aver esaurito la sua originaria funzione per aspirare a svolgere compiti ancor più nobili a sostegno dei bisognosi. Da poco è altresì utilizzata per la scuola professionale Santa Chiara.

Sono ormai passati tantissimi anni, quasi una vita, da quando indossai con Mirko, il mio compagno di banco delle elementari, la divisa da chierichetto, anche per far colpo sulle ragazzine che venivano a Messa. Eppure la mia passione, la mia predilezione per il borgo delle tre Chiese non si è per nulla ossidata. Ora che sono libero dal  lavoro spesso  mi ritrovo a passeggiare nella parte vecchia del  paese. Lo sanno bene il Vladi e Gian Cravero che mi vedono gironzolare sotto casa loro a tutte le ore in tutte le stagioni. Parto da Via Molino, dopo le Aie m’infilo su per Vico del Diavolo, passo Piazza dei Bianchi, il rubinetto e l’affittacamere non ci sono più. In Via Tripoli il campetto da calcio della Chiesa è ora utilizzato come parcheggio. Delle centinaia di ragazzi che qui trascorrevano molto del loro tempo, neanche l’ombra. A Porta Genova il negozio di zia Emma non c’è più, è stato trasformato in un appartamento. Via Berthoud, automobili a parte, appare deserta. I famosi negozi, fiore all’occhiello di Serravalle sono tutti chiusi con chili di polvere sulle serrande. Sembra di camminare in un paese fantasma.

Mi sistemo meglio la mascherina anti covid che mi appanna gli occhiali. Le lenti inumidite almeno hanno il vantaggio di non farmi notare più di tanto la realtà che mi circonda. Nonna Amalia non riconoscerebbe di certo il bel paese dei suoi tempi. Nonostante possa sembrare desolante passeggiare in un paese che nella sua via principale sembra abbandonato, quando sono in Via Tripoli provo una sensazione di benessere, di buon umore.  Qui passano poche automobili, il silenzio è rotto solo dai rintocchi delle campane delle tre Chiese all’ombra del Castello.

La sensazione piacevole che provo in questo luogo, condivisa da altri Serravallesi, è dovuta anche alla consapevolezza che qui è passata la Storia dal Medioevo fino al recente dopo guerra. Purtroppo alla fine degli anni ’60 per vari motivi più che legittimi, tanti hanno preferito abitare in case più moderne, più confortevoli  ed hanno abbandonato il borgo dopo circa dieci secoli di convivenza. Questo processo di abbandono dei borghi antichi è avvenuto in tantissimi paesi di tutta Italia, salvo poi rendersi conto, dopo alcuni decenni, che i centri storici se restaurati, abbelliti e valorizzati rappresentano un richiamo turistico formidabile. Prova ne è che vi sono sorti come funghi i localini tipici, i ristorantini e i BeB con buoni affari per gestori e proprietari. Quando si passeggia all’ombra del Castello si ha l’impressione che il vecchio Borgo cerchi di sussurrarci qualcosa. Se sapessimo ascoltarlo ci direbbe di proteggerlo e di valorizzarlo. La restituita bellezza del nucleo originario del nostro abitato ci consentirebbe di recuperare la perduta coscienza collettiva di un paese che sembra essersi smarrito, incapace di ritrovare se stesso. Serravalle fino a non molto tempo fa era il paese più bello della valle.

L’amor che m’arse in cor da giovinetto,
non è da or che me ne accorgo,
fu per lo Scrivia, il Castello ed il Borgo
Ancor oggi non passa giorno che all’ombra del Castello ci giri attorno.
Vico del Diavolo, Piazza dei Bianchi fino al più stretto Vico del Forno.
La sua verde bellezza:
da Montei ai Sabbioni fino a Cappellezza.
Dobbiamo impegnarci noi tutti in coro
ad amare di più questo nostro tesoro.
 È il nostro passato, è il nostro Paese:
il borgo gioiello delle tre chiese.


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