Gelindo 1973 e altre storie nel Teatro dei Luigini

Nella fila davanti: da sinistra: Barbara Giancola, Sandra Moscardini, Antonella Traverso, Giampaolo Gatti, Alessandra Saturnino, Nicoletta Aragone, Paola Giorgi.
Fra il pubblico, primo a sinistra Franco Stranieri
“U gà e kü nàigru kmè a fàcia da a kudréina” riferito a uno dei tre Re Magi, in luogo di “U gà a fàcia nàigra kmè e kü da a kudréina”, è un lapsus quasi epocale nella storia del Teatro a Serravalle.
Detto dei “Luigini” (schiacciare su Luigini per altre informazioni) e incassato nel tufo del Monte Castello, si trova dietro la Casa del Giovane. La sua costruzione fu deliberata 18 agosto 1901 dall’allora esistente Compagnia del SS. Sacramento e dal Parroco Giuseppe Ozzano.
A memoria d’uomo è stato, ancor prima dei cinematografi, l’unico centro di divertimento per il paese. Con me, Roberto Botta, Aldo Orlando e alcuni altri, quel locale ha vissuto i suoi ultimi splendori, per poi essere affossato dalle misure legislative nate a seguito dell’incendio del Cinema Statuto di Torino.
In quegli anni ‘70 ci si è recitato un po’ di tutto. Dai testi dialettali, alla riduzione dei classici fabulistici, da Goldoni ad Eduardo.
Si provava senza riscaldamento, abbondantemente anche sotto lo zero. Le sedie di legno della platea erano in gran parte sbrecciate, il palco era contornato da quinte pericolanti ed un pannello elettrico, più pericoloso di un cavo dell’alta tensione, garantiva l’accensione delle luci. Non esisteva la toilette ed il camerino era ricavato in una grotta.
Il mio debutto come attore avvenne in un ruolo drammatico, quello di Erode, in Gelindo. Gelindo è una commedia assai diffusa nei paesi dell’alessandrino. Rivede, con gli occhi degli umili pastori, la nascita di Gesù e si recita sempre in dialetto, tranne il terzo atto, noiosissimo, in cui in italiano Erode, con un lungo monologo, medita la ben nota strage degli innocenti. Vestivo una mantella porpora ed avevo il capo cinto da una corona di cartone dorato con al centro, a mo’ di pietra preziosa una verde pallina di Natale. Un bel ruolo, non c’è che dire, per un futuro pediatra.

Furono comunque i “vecchi” a farla da padrone. La serata della rappresentazione teatrale visse su particolari assurdi ed esilaranti. Anche il pubblico fece la sua parte, al punto che, dal punto di vista dello spettacolo, non so se si potesse fare una distinzione fra il palco e la platea.
“Tilàtlu e mé scialétu” gridò dalle prime file una donna che aveva prestato a Franco Bobbio il proprio indumento. Il suggeritore, Gein Mazzarello, era così infervorato nel suo ruolo da coprire le voci degli attori. Marco Briccola esplose la propria stanchezza sostituendo un:
“A soun pròpiu stànku, im kaza pròpiu e bràse” con un più significativo “im kaza pròpiu e bàle”. Biava esternò la propria ammirazione alla Madonna di turno definendola “bèla kme Isa Fuster (Ira Furstemberg n.d.a.). Medoro (il Bobbio) entrò in scena letteralmente scaraventato da Gigino Ferrari, poiché ritardava il momento della propria entrata. Disgraziatamente a costui rimase in mano un kriss malese, residuo fra le quinte di qualche pesca di beneficenza dell’Addolorata, con il quale si stava inopinatamente trastullando nell’attesa. Questo oggetto “di pace”, venne inauditamente riposto nella gerla dei doni che i pastori preparavano per il Bambin Gesù.

Questa spontaneità di paese rinnovava una tradizione assai antica e che raccoglieva aneddoti chilometrici. L’apice del tragicomico si raggiunse pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando venne rappresentata una riduzione teatrale della vita di Gesù. Forse non era stata ancora edificata la casa del Giovane, col bar, i bagni e ogni altra moderna comodità. Per i bisogni fisiologici, in oratorio non restava che la buca del suggeritore a garantire un minimo di privacy. E così fu che durante l’episodio della resurrezione di Lazzaro, l’interprete di turno, fu calato in quello spazio, vestito candidamente con un bianco lenzuolo. Di fronte al pubblico in rispettoso silenzio sul palco entrò Gesù con i dodici apostoli.
“Lazzaro risorgi!”
“A soun tütu sporku ‘d mèrda!” sussurò dalla buca un desolatissimo Lazzaro.
Gesù rimase interdetto per qualche secondo.
“Lazzaro risorgi!” provò a ripetere alzando il tono della voce.
“At dìgu ka sòun tütu sporku ‘d mèrda” supplicò l’altro da sotto.
L’imbarazzo cresceva perchè la commedia non andava avanti.
“Lazzaro risorgi!” fece allora irato il Cristo.
““A te ditu ka sòun tütu sporku ‘d mèrda” ribattè il Lazzaro deciso a non risorgere in quella condizione.
“E mèrda o no mèrda sòrta főa da lì!” concluse urlando il Messia.

Riccardo Lera e Roberto Botta
Dopo l’esordio con Gelindo mi appassionai sempre di più a quell’hobby. Attore solitamente di spalla o coprotagonista, costituii negli anni una coppia di ferro con Robi Botta. Fui Vinicio Vaccarone in “Pane Amore e Fascine“, il Re in “Cenerentola“, Mangiafuoco e la Volpe in “Pinocchio“, Simon Maroele nei “Rusteghi”, Antonio di Stefano in “Uomo e Galantuomo“ed altri personaggi, da me sempre sottolineati in maniera solitamente caricaturale.
Avevo le chiavi: ero io ad aprire e sempre io a chiudere. Ci sono rientrato pochi anni fa. Il tetto è crollato. Per chi ha visto in “Nuovo Cinema Paradiso” la bella scena del protagonista che, da adulto, rientra nel vecchio cinematografo pronto per la demolizione, sarà più facile comprendere la mia commossa melanconia di quel momento.

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