Racconti, testimonianze, favole, poesie

Dall’Epifania alla Madonna Candelora

Foto in evidenza: il vitigno dello zibibbo (dall’Arabo zabīb (زبيب) cioè “uvetta” o “uva passita”)

Anonimo Fiammingo, (secolo XVII), Natura morta con arance, melagrana, frutta secca e frutta candita

Tornando ai dolci delle feste, sulla tavola poteva pure esserci dell’altra frutta secca (arachidi nisuéini, noci…) e pure datteri, oltre a ciò attaccato all’albero. In particolare non mancavano üghéta o, n’cù méju, sbìbu: la prima è uva nostrana ottenuta in casa dall’appassimento dell’uva raccolta l’otto settembre (“u rósu”) ed appesa in luogo fresco ad asciugarsi, mentre la seconda, ancor meglio, è uva sultanina bianca, acquistata in negozio ed ottenuta dall’uva zibibbo, dal gusto molto più intenso.

Francesco Codino, canestra di agrumi e alzatina con dolcetti, Bergamo, Accademia Carrara

Tutte queste qualità di frutta hanno in comune d’esser composte da chicchi o di provenire da rami su cui spuntano parecchi frutti. In sostanza presentano un richiamo all’abbondanza che si cerca di invocare ad inizio anno. Anche gli agrumi evocano in qualche modo questo aspetto poiché sono composti da parecchi spicchi. I pùrtugàli o sitróuni (se si vuol adottare la dialettizzazione del termine dal francese, viste le influenze di questa cultura anche nei nostri posti) giungono dalla confinante Liguria che fino alla fine del XVIII secolo fu uno dei maggiori produttori di arance, limoni, cedri che, per i loro profumi e colori hanno da sempre affascinato i viaggiatori. La coltivazione e l’esportazione di questi frutti preziosi aveva un notevole peso per la Repubblica di Genova, che li commerciava con il nord Europa. Gli agrumi, raccolti ancora acerbi, erano cotti in una sorta di melassa ottenuta da sostanze zuccherine, spezie, e dal loro stesso succo, quindi stipati in barili di legno e conservati nelle stive come ottima riserva di vitamine. È probabile che tale ricetta derivi dalla cucina araba: i genovesi affinarono le tecniche di origine orientale ottenendo la frutta candita, diventandone quindi i migliori produttori e consumatori.

Paul Gauguin, Natura morta con arance

Ritornando in cucina, un particolare uso dell’üghéta o dello sbìbu era di essere utilizzata per fare i bottoni della giacca oppure gli occhi della buséla… but, sorry… what’s buséla? Si tratta di un dolce di derivazione tortonese-lombarda, sagomato a forma di pupazzo, maschio o femmina a seconda se sia da regalare ad una bambina o ad un bambino. Nell’Oltrepò si regalava subito dopo Natale, forse per questo entra sulle nostre tavole in occasione di Santo Stefano contitolare della nostra Collegiata. In origine l’impasto erano gli avanzi della pasta del pane, con cui si può fare pure la focaccia bastarda (ma questa è un’altra storia che lasciamo alla sezione cucina del nostro sito). Ingredienti poveri, insomma, tuttavia poi arricchiti con uva passa fino a giungere a farla con un impasto di frolla dolce. Il nome deriverebbe dal latino buccellam (bocconcino) e darebbe nome anche ad altri dolci simili presenti in alcune regioni italiane. In tutti i casi la caratteristica è quella di prevedere come arricchimento dell’impasto determinati frutti, semi, canditi, ecc., che indichino abbondanza, come sopra descritto. Anche il suo consumo è accompagnato da un apposito “rituale” che prevede che questo dolce non venga tagliato ma spezzato. Si potrebbero addirittura fare paragoni con dolci francesi o spagnoli, dove le decorazioni richiamano i preziosi delle corone dei Re Magi o gli stessi doni preziosi che essi portarono in dono al Re dei re, ed eventuali “sorprese” collocate all’interno dell’impasto (una monetina, un seme di legume, un piccolo pupazzetto a forma di bambino o di personaggio del presepe) richiamano fortuna, fertilità, o, biblicamente, lo stesso Gesù sottratto dalla ricerca dei bimbi da uccidere, messa in atto da Erode. In ogni caso si tratta di un prodotto della panificazione da forno, è dunque evidente il richiamo al mettere in comunione, a condividere cibo e sorti umane (spezzare il pane, ecco perché la busèla non va tagliata).

Busela

Sia nella notte che per la Messa grande delle 11, per un verso ci si accalca (la partecipazione è pressochè totale dell’intera comunità cristiana) e per altro verso si cerca di tornare velocemente a casa una volta finita la funzione. Da un lato si attende diligentemente di mettersi in fila per baciare la statuina di Gesù bambino a fine Messa, dall’altro ci si affretta per uscire, poiché ci sono almeno due cose cui adempiere: giro di auguri a chi si incontra per strada e soprattutto a casa di parenti e conoscenti, e operazione “poesia e ricompensa”.

Un’altra attività pre-natalizia era infatti l’apprendimento di poesie più o meno “a tema” che avevano come obiettivo recondito non solo la dimostrazione della propria capacità mnemonica, ma l’ottenere qualche monetina per l’operazione “poesia e ricompensa” di cui sopra. Sulle prospettive di questa operazione ho sempre nutrito seri dubbi. I miei nonni mi hanno sempre elargito ben più di qualche spicciolo alla fine delle mie performances… tuttavia una volta diventato grandicello questo “adempimento” veniva interrotto in nome dell’indiscutibile osservazione “ormai sei grande”… ma porca miseria, da piccolo al massimo avrei potuto acquistare qualche caramella (tant’è vero che i soldi raccolti poi li consegnavo ai miei o li mettevo nel salvadanaio, chiunque l’avrebbe fatto), invece i finanziamenti venivano interrotti proprio ora che avrei saputo cosa comprare (non pensate male, si sarebbe trattato di libri, fumetti, qualche bel gelatone, qualche oggetto di cartoleria un po’ più “furbo” da esibire a scuola, e cose simili)… pazienza!

Arriva dunque la fine del pranzo e bisogna entrare in scena. Indipendentemente dal brano da recitare, di solito salendo su una sedia, i ritornelli con cui esso finiva erano in pratica l’esplicita richiesta di elargire qualcosa: se le feste sono liete, fuori fuori le monete!

Io personalmente ricordo una strofa che faceva riferimento ad un improbabile menù applicabile indipendentemente dalla ricorrenza: “predica predichina, ho mangiato una gallina, una gallina era poca, ho mangiato anche un’oca, un’oca era poca, ho mangiato un piatto di riso e sono andato in paradiso”. La scena culminava facendo il giro dei commensali a cui presentare un piattino sul quale potessero deporre il “meritato” denaro.

Enzo Ciarlo con il Vescovo Vittorio Viola

Sempre in questa prospettiva, non posso dimenticare Enzino Ciarlo che aveva imparato (forse da qualche collega della Croce Rossa locale) il refrain seguente: “Vincenzino col cuore in lancia, stringendovi la mano augura buone feste e vi chiede la mancia”. Sicuramente qualcuno ricorderà pure altri personaggi od anche sconosciuti dei nostri borghi che cercavano di fermare la gente per strada augurando buone feste nel tentativo di ricevere qualche spicciolo… del resto l’è Natòle, l’abbiamo già ricordato fin dall’inizio di questo articolo, no?

Inutile cercare nelle feste un motivo per attardarsi a tavola. Sicuramente era uno degli appuntamenti classici per riunirsi ma non certamente per stare tutto il giorno con le gambe sotto il tavolo. Il pomeriggio avrebbe riservato visite a parenti e la partecipazione al Vespro. Un classico della vigilia del 6 gennaio era invece, fino a pochi anni fa, la recita a cura dei ragazzi della Parrocchia, recita che si concludeva con l’arrivo dei Re Magi (chi erano? è aperta la ricerca tra chi se li ricorda, e tra chi li ha impersonati) a distribuire dolciumi ai presenti ed ai piccoli in particolare.

La fine del periodo delle feste di fine/inizio anno viene tutt’ora rammentata con il monotono proverbio “l’Epifania tutte le feste le porta via”. Dovrebbe essere il contrario ossia a Pasquetta è stato dato l’annuncio di tutto ciò che scaturisce dal Natale… ma questo lascia purtroppo luogo alla conclusione di determinati eventi perché è la quotidianità che in fretta ricomincia. Bisognerà aspettare fino a San Giuseppe e poi a Pasqua per avere qualche variazione in tavola e qualche nuova occasione per uscire di casa…

Gentile da Fabriano, Presentazione al Tempio,
Parigi, Louvre

Non esiste una data precisa per disfare il presepe, non è diffusa la “scadenza” del 2 febbraio (Presentazione al Tempio, vulgo Madóna canderiœa) per toglierlo, come accade nel Genovesato. Ad ogni modo le scatole appositamente destinate a conservare gli addobbi erano già pronte per riceverli ed essere stoccate in cantina o solaio o in qualche armadio, da lì non sarebbero più uscite o state toccate prima di 11 mesi. Era più scrupolosamente rispettato l’uso di conservare una fetta di pane della tavola di Natale, da consumare lungo l’anno, in caso di necessità (spirituali o infermità) al pari di pane benedetto come quello che sarà distribuito per Sant’Antonio abate. Qualcuno copia le usanze lombarde e conserva una fetta di panettone o ne compra uno per San Biagio, visto che in questo “ultimo appello” post festività, i commercianti li mettono in vendita a metà prezzo. Pö basta, neh? E feste sòun finìe!

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