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SANDRO – Un racconto partigiano

“Bela Madunèina coa, fame a grascia. Fame rivó a vent’ani, an pösu no muí csi prestu”.
Stringo forte al petto l’immaginetta della Madonna di Monte Spineto che mamma Salvina mi ha infilato in tasca. Me ne sto rannicchiato al buio tra la boscaglia, non so se muovermi o rimanere immobile. Il cuore batte a mille e cerco di respirare piano per calmarmi. I colpi dei tedeschi sono finiti, forse sono morti o se ne sono andati. Non avrei mai pensato di riuscire a sparare contro degli uomini eppure “a son ki”, nascosto dalla notte e dal fogliame. “C’me k’ö fatu a finí in ti sta storia?”

La storia è presto fatta. A marzo Mancini, il capo della Viganò, dividendo noi ragazzi in piccoli gruppi, aveva chiesto alla mia brigata, la Podestà, di disarmare i fascisti e fare prigionieri tedeschi per gli scambi. “A Villa Pomela ci sono alti ufficiali tedeschi, provate ad attaccarli quando passano lungo la strada”. A questo scopo ci aveva fatto trovare un mitragliatore e due sten dentro la cavità di un traliccio nello Scrivia.
Il ponte Arquata-Stazzano, minato e presidiato da quattro vecchi fascisti che si sono arresi subito, era stato facile da liberare. Ma questa notte è stata tutta un’altra cosa. “L’è n’bel dì” fateli saltare e vedete se riuscite a catturare dei nazisti.  Ho sparato contro un treno mesi fa, ma qui si è trattato di mirare alle persone.

Angela Casonato, mia mamma

Quando è scattata l’imboscata tra Vignole e Serravalle però non ho avuto il tempo di pensare.
Anche se mi tremavano le mani, nell’istante in cui sono spuntate le motociclette all’inizio del convoglio, ho scagliato le bombe. Non ho più visto niente, solo una grande nuvola di fumo. Le moto sono cadute eppure non abbiamo potuto avvicinarci perché i nazisti urlavano da pazzi e sparavano a non finire coperti da una grossa autovettura.
I miei compagni si sono dileguati e hanno fatto bene: se non si è in grado di fare prigionieri, l’ordine è di scappare tra i boschi che conosciamo bene.
Ecco come sono finito in questo fosso ad aspettare che le gambe riprendano a funzionare.

“Painsa painsa Sandro, sta fermu e painsa”. Pensa tutti i tuoi “perché” e la paura se ne andrà.
Ecco sì, se penso a Sergio lo so di certo perché mi trovo qui.
Sergio Bagnasco, un anno più di me, era il mio migliore amico. Pensare che ci sentivamo soldati perché da premilitari ci mandavano col bastone a picchiare sulle porte delle case con le luci accese se gli aerei francesi sorvolavano il cielo di Serravalle. A capodanno del ’43, prima che lo arruolassero, ci siamo promessi di passare la prima notte dell’anno sempre insieme. E’ diventato un partigiano e alla fine della scorsa primavera Sergio l’ho rivisto a Voltaggio accanto al suo comandante Casalini, anzi ho visto solo il muro dove li hanno fucilati.

Sono qui per “me mumà”, la Salvina, che sta morendo di paura. Mi ha raccontato cento volte che la prima guerra mondiale si è presa quattro dei suoi fratelli e ne ha reso solo due e mezzo. Celeste è caduto sul Carso e Edoardo è tornato con una gamba e un braccio in meno.

E lo faccio per la mia sorellina Angela con le trecce nere e lo sguardo serio. “Pòvra fìa”, voleva studiare medicina, “l’ea csi bròva a scöa” ma ha dovuto smettere finito l’Avviamento. Per forza, se la tua famiglia non ha la tessera del fascio, non puoi fare un accidente.
Li rivedo tutti accanto a me a tavola con la mamma che chiede pensierosa “Ma quantu ka düerá sta guèra?” “La signora maestra dice che finirà presto perché è una guerra lampo” prova a rispondere mia sorella. E il babbo, già tanto malato, sentenzia pensieroso: “Sa pudèsmu avàighe in saku ‘d faèina ka düa quantu ista guèra..”

Giuseppe Raviolo e Germana (Salvina) Casonato. Genitori di Sandro


Altro che lampo, sono passati due anni e faccio il partigiano per il mio papà che con la leva, il richiamo per la Libia e la grande guerra è rimasto a militare cinque anni.
“Povr’omu”, alla fine se n’è andato e se non fosse morto avrei dovuto seguire Sergio al fronte. Invece mi sono salvato dalla cartolina grazie alla Salvina che si spacca la schiena a lavare “in te Scrivia” i panni della moglie del capostazione. E’ stata lei a suggerire di fare domanda per entrare in ferrovia in quanto orfano di padre. 


Sono in questo anfratto nero perché non voglio che succeda mai più a un ragazzo come me di poter ottenere uno straccio di lavoro solo con la loro sporca tessera. Mi fischiano ancora le orecchie per le pernacchie alla Casa del Fascio: “Ti tè e fiö ‘d Francesco, va a ka cl’è meiu”.
C’è voluto lo zio Naldo, Ardito nella prima guerra e per questo rispettato dai fascisti, per convincerli a darmi quello stupido pezzo di carta. Mi sono presentato con sei lire per l’iscrizione e me ne hanno chieste 12. Se non ci prestava i soldi la nostra vicina, la Rusin, il lavoro andava a farsi benedire.

Mi passano davanti le giornate in ferrovia a Genova e la galleria dove si correva se suonava la sirena. “Piemonte!”- mi chiamavano così per non dire il mio cognome che mette appetito – “corri nel rifugio!” A volte era pieno di operaie della fabbrica di confetture e, scambiandoci panini e marmellata, ho conosciuto una ragazza. Come diventavamo rossi, ci prendevano in giro le altre donne ma è stato l’unico momento bello di quei giorni disgraziati.
Poi l’otto settembre e l’armistizio. La pace? Macché, è iniziato il momento peggiore. Una mattina i nazisti li ho trovati in stazione, con un maresciallo che ha insediato il suo comando nel deposito.

Il fucile lo stringo con più forza se penso all’impiegato fascista che mi ha accusato ingiustamente di aver rubato i fasci littori di bronzo smontati dai treni. Sento ancora bruciare la faccia per le botte. L’ha fermato l’ufficiale tedesco, ha detto “Arbeit o Germania” che è chiaro come il sole: gli servivo in vita solo per riparare locomotori. Mi ha fatto girare come una trottola tutta l’Italia del nord questo maresciallo Zimmerman, insieme a quaranta uomini stipati dentro carri merci per aggiustare treni e ponti.
I caccia alleati rombavano sempre più forte, tutti parlavano di sbarchi angloamericani e le corse a rotta di collo per sfuggire alle mitragliatrici erano di giorno in giorno più frequenti.

Don Guido, Rettore di “Montespineto”
dal 1928 al 1965

Una volta mi sono buttato in un tombino e poco dopo mi è caduto addosso il maresciallo che spingeva per farsi posto accanto a me. Mi ha mostrato la foto della sua famiglia, probabile che anche lui cominciasse ad aver paura.

La paura, quella vera io lo so cos’è. Ne ho avuta tanta quando ho deciso di scappare e di più quando sono tornato a Novi. Il 4 giugno ho pensato di morire per le bombe sul deposito a San Bovo, ci siamo salvati per un pelo. E dopo appena un mese quanti morti da contare dopo il bombardamento sopra la stazione. Sono qui a fare la mia parte anche per le donne e i bambini in coda per il latte falciati via in un momento.
Devo farmi forza per Berthoud che al lago Filadù nello Scrivia mi fatto diventare partigiano con il nome Falco e l’ordine di tornare al lavoro a Novi perché ricambi e attrezzi non devono mai mancare. I primi lavori sono stati facili: falsificare carte d’identità e annonarie, scrivere frasi antifasciste, portare materiale su nei monti, avanti e indietro per sentieri e guadi in Val Borbera.
Sono sicuro di aver fatto la cosa giusta questa sera perché lui non ci ha traditi. Quando l’hanno arrestato e torturato poteva fare i nostri nomi, ci conosceva per filo e per segno, ma non ha parlato e ci ha salvati tutti.
Devo resistere per Don Guido di Monte Spineto che mi conosce bene perché sono stato chierichetto. In questi anni, mentre mi sfamava a pane e latte, scrutavamo insieme l’orizzonte col suo cannocchiale per avvistare le colonne tedesche.

Chierichetti (“piccolo clero”) serravallesi. Sandro è il secondo da destra nella fila centrale


Una volta siamo andati di vedetta sopra Stazzano e ci siamo avvicinati a una villa da dove usciva la musica di un pianoforte. Lo suonava un bambino vicino alla finestra. Combatto anche per lui, in modo che più in là nel tempo possa diventare il cantante Nino Ferrer.
Sono a fare la guerriglia per Pipetto, il bombardiere americano, perché finisca presto di volare sulle nostre teste. Sto dalla sua parte ma sono stufo che continui a bersagliarci: oltre a centrare la tomba di mio padre, ha preso in pieno la nostra casa sul Lastrico con mamma e mia sorella dentro. Solo per miracolo si sono salvate e ci è toccato sfollare al Fabbricone.
Ora so dove trovare il coraggio: i momenti passati e le persone a cui ho pensato mi danno la forza di rimettermi in piedi, correre a più non posso e rintanarmi in casa.

Nei giorni seguenti vengo a sapere di una macchina tedesca trainata verso la Pomela. Chissà com’è finita, non so se abbiamo ucciso. Niente prigionieri, ma almeno ci abbiamo provato. Per assalire e catturare i nazisti ci voleva molta esperienza e noi non l’avevamo.
Ormai è meglio non pensarci, finalmente arriva la notizia che il 25 aprile Genova è liberata. Dopo pochi colpi i nazisti a Serravalle si arrendono e le SS se ne vanno nella notte con un lasciapassare.
Il comando partigiano mi chiede se voglio entrare in Polizia ma di armi non voglio più sentir parlare, ringrazio e torno a fare il ferroviere. Non partecipo alla festa, voglio solo stare a casa con mamma Salvina e mia sorella, bianche come fantasmi, e io abbronzato come non sono stato mai.
Se tiro le somme, dei nati nel mio anno a Serravalle, il 1925, cinque ragazzi sono morti alla Benedicta, due sono scomparsi e tre uccisi dai partigiani. Uno di questi ultimi era il mio compagno di banco Massimo. Aveva un fratello morto in Russia e nella cameretta un quadro di Mussolini a cavallo. Diceva “non me la sento di venir meno a un giuramento ma non posso neanche andare sui monti a sparare ai miei amici. Vado in Garfagnana a combattere gli angloamericani”. Non è mai tornato a casa.

Alessandro Raviolo (in alto a sinistra) con gli amici Mario C. in alto a destra
Sergio Bagnasco in basso a sinistra e Aldo Pestarino in basso a destra

Questa fotografia, che guardo ora che la guerra è finita, è stata scattata nel ’41 sul greto dello Scrivia. Sembra un altro mondo, chi l’avrebbe detto che la guerra potesse scompigliare in questo modo le nostre vite spensierate. Quattro amici inseparabili: Sergio in piedi a sinistra con me in spalla, a destra Aldo che è sopravvissuto, e in alto Mario ucciso dai partigiani nel ’44 in Val Borbera.
“Auva a seru u livru”, voglio dimenticare tutto e cominciare un’altra vita. C’è una cosa sola che però continuo a non capire: perché per essere arruolato ero maggiorenne a diciotto anni ma non lo ero per votare il referendum il 2 giugno 46 siccome non avevo ancora ventun’anni?

Questo racconto è estratto da un libretto di memorie di mio zio Alessandro Raviolo che suo figlio Giorgio gentilmente mi ha donato. Spero di avergli reso un piccolo omaggio.
La sorellina citata invece è mia mamma Angela Casonato… sì lo so, hanno cognomi diversi e io mi chiamo come mio zio materno, ciò non toglie che si considerassero fratelli a tutti gli effetti.
E’ un’altra lunga storia…

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Un pensiero su “SANDRO – Un racconto partigiano

  • Giorgio Raviolo

    E’ vero sono storie di famiglia ed io le conosco. Tuttavia Bibi, e lo penso veramente, tu hai la capacita’ di scavare nelle storie e trovare dettagli sconosciuti. Grazie da parte mia. Un abbraccio!. Giorgio

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