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La chiesa di Borio

La tentazione di cominciare dalle ultime righe, le più recenti e squillanti, quando si tratta di raccontare un luogo che conserva memorie, può essere forte. In fondo, il passato non può essere anche nostro, se entra nel presente?

Ma come fare se si vuol provare a tratteggiare il ricordo di un luogo di rimembranze, se l’edificio che conteneva tante storie evanescenti è a sua volta scomparso, demolito, cancellato?

C’era, e c’è, una piccola altura, dove il cammino si fa a tratti cedevole, in altri appena ruvido: le linee sono armoniose, quasi un’eccezione morbida fra le creste ancora aspre, da entroterra ligure.

La vegetazione sa d’erba e fioriture selvatiche, mentre quasi sempre il vento tocca il suo avanzare. L’aria rinforza in un profumo di mare che lo spazio può condurre, il tempo incalcolabile dai vicini calanchi non ricorda. Siamo a una manciata di metri dalla strada che collega Rigoroso a Sottovalle, tra i campi detti di Borio o di Buio. In un continuo mescolarsi di pensieri lieti e cupi, di feste e di esequie, di allegria e di macabro. Quassù, per poco meno di duecento anni, dal 1815 al 1998, sorse il Santuario della Madonna della Salute, luogo di devozione caro alla gente del posto, ma anche cappella funebre privata e sepolcreto della nobile famiglia Poggi Bonifanti. Il cenno a quei due secoli non raggiunti, a una chiesa scomparsa, ad antiche tombe, non inganni: questi prati invasi di luce non conoscono toni oscuri, chiamano corse, e baci, e canzoni.

A Borio gli abitanti di Rigoroso e dintorni andavano e vanno in gita, per la festa dell’ultima domenica d’agosto e in tanti altri giorni, per fare un picnic, godere del fresco, guardare alberi, nuvole e spensieratezza. La natura domina, e quasi ingloba, senza che ciò rechi particolari turbamenti, una grande tomba disadorna. Segno delle umane sorti, sempre, in fondo, inevitabilmente piccole? Torniamo indietro.

Il Santuario di N. S. della Salute prende forma tra il 1815 e il 1816, e non è una semplice, rustica cappella, ma a tutti gli effetti una piccola chiesa: ha un campanile con due campane, un altare centrale con fregi d’ispirazione barocca, e perfino un organo per solennizzare con la musica le celebrazioni. A volerlo erigere è il parroco di Rigoroso, e i terreni fanno parte delle vaste proprietà della blasonata casata dei Poggi. I due fattori convergono. Il rettore, infatti, è un membro della famiglia. Tanta gente comune si fa conquistare dal progetto, e contribuisce alla costruzione con offerte, ore di lavoro, collaborazione. All’edificio di culto viene annessa anche una piccola canonica.

Passano molti anni, le allegre feste tra i prati si alternano alle esequie dei membri della famiglia Poggi, che avvengono in curioso mischiarsi di solennità e aria contadina: i cortei salgono la collina guidati dal sacerdote salmodiante, ma il feretro sta su un carro da fieno, trainato da due buoi parati a lutto, come in città si fa con i cavalli.

Le pareti si vanno riempiendo di lapidi per perpetuare la memoria dei defunti, creando in scala ridotta un effetto simile, ad esempio, a quello che si vede nelle chiese genovesi di S. Anna e di Padre Santo. Gli epitaffi sono lunghi, dettagliati, talvolta ridondanti di aggettivi, e rievocano giuristi, cavalieri, filantropi, dame integerrime ed esimi ecclesiastici. Questa, dal 1919, è anche l’ultima dimora di Gaetano Poggi, appassionato storico del passato ligure, cultore e promotore degli scavi di Libarna, sindaco di Arquata e primo assessore alle Belle Arti del Comune di Genova. Attualmente la biblioteca civica di Arquata porta il suo nome.

Il santuario, sempre amato dagli abitanti di Rigoroso, viene mantenuto a lungo in ottime condizioni, almeno per ancora un ventennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per molto tempo una custode sale dal paese più volte la settimana, per controllare che tutto sia a posto, per fare le pulizie e i lavori “di fino”.

Ma nel 1968 avviene una profanazione: a operarla sono quasi certamente ladri sacrileghi, intenzionati a impossessarsi di gioielli e oggetti di valore eventualmente sepolti con le salme. L’effrazione, oltre ai danni materiali, segna una parabola discendente, prima lenta, poi sempre più repentina. La manutenzione diviene lacunosa ed episodica; ai segni del tempo e delle intemperie si aggiungono sfregi di mani stolte. Ma è con l’ultimo decennio del secolo che la situazione è destinata a precipitare. Sono ormai inoltrati gli anni novanta, infatti, quando ulteriori e gravi fatti proiettano il piccolo e decadente edificio in cronache cupe. Nel 1991 erano stati individuati e denunciati gli autori di alcuni danni. A furti e danneggiamenti si unisce la violazione di varie tombe, il vilipendio delle spoglie dei defunti, la messa in scena di simboli satanici. Alcuni esperti asseriscono che non si debba parlare di messe nere, ma solo di macabre improvvisazioni: restano comunque lo scempio, la preoccupazione di enti pubblici e religiosi, l’allerta delle forze dell’ordine e la sincera preoccupazione degli abitanti. I giornali s’interrogano, nella seconda metà degli anni novanta, su folti capelli fulvi che spiccano in una fossa aperta: erano già lì, o appartengono a una persona viva e sono stati tagliati durante qualche strano rituale? Purtroppo, però, a riportare tutti all’urgenza della realtà s’impongono il pericolo rappresentato da buche ed elementi pericolanti, lo stato inaccettabile di chiesa e sepolture e il ripetersi, in mancanza ormai di robusti deterrenti, di accessi notturni di curiosi o peggio. Il complesso è sempre rimasto proprietà privata, quindi a dover decidere una qualche risoluzione sono gli eredi.

La scelta pone fine drasticamente al senso di allarme, lasciando una certa malinconia: il santuario di Borio verrà abbattuto.

Cala così, nel 1998, il sipario, in forma simile a una grande lastra tombale, su N. S. della Salute, sulle sepolture dei nobili che tuttavia ancora dormono su quella collina, su una stagione che si perpetua in parte nella tradizione di salire a Borio, e celebrarvi anche, su un altare un po’ discosto, una messa annuale. Solo un’iscrizione, non perfettamente leggibile, rimanda alla chiesa che fu e alla sua demolizione; lateralmente, forse per caso, una lapide spaccata proprio all’altezza del nome prova a raccontare di una famiglia di ufficiali e avvocati.

Dove sono finite le storie? Il vento le conosce, e talvolta le sussurra tra gli alberi? Oppure le ha già disperse in un abbraccio eterno coi prati e le gole, e dice alle nuove rondini che non poteva andare diversamente, che il destino ha chiuso il suo cerchio? Noi non conosciamo la sua lingua, e forse è meglio così.

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