La pesca con la penna d’istrice
In questo e nei prossimi articoli racconterò le semplici tecniche di pesca che adoperavamo poco dopo il 1960, quando nello Scrivia i pesci grandi e piccoli erano innumerevoli e per noi bambini il torrente era un campo di gioco meraviglioso.
Questa era la nostra attrezzatura: una canna di bambù di circa 3 mt. (io ne avevo una in tre pezzi che mi aveva provveduto papà e che era invidiatissima…), un rocchetto di monofilo di nylon diametro 0.15, un galleggiante in penna d’istrice (più uno di scorta), un pò di piombini spaccati di misura piccola, qualche amo a paletta mis. 16.
Diciamo velocemente che un monofilo 0.15 è relativamente sottile e delicato e uno 0.40 spesso e robusto; un amo mis. 16 è medio sottile e un amo mis. 8 è abbastanza robusto.
Come esca si adoperavano le cosiddette verdine (dal colore generico che mostravano): larve di tricottero o efemerottero che venivano apposte sul piccolo amo, due o tre la volta.
La lenza era composta così: si attaccava all’occhiello fisso sulla vetta della canna uno spezzone di monofilo di circa tre metri, si passava lo stesso dentro l’anello di plastica e l’occhiellino di ottone della penna d’istrice per assicurare la stessa alla lenza. Si legava alla estremità rimasta libera del monofilo l’amo del 16.
Si schiacciava qualche piombino spaccato sulla lenza per equilibrare la penna e farle assumere una posizione verticale in acqua, la estremità rossa in alto e quella con l’occhiello di ottone in basso. Se tutto era ben fatto, con le piccole esche fissate sull’amo, bastava un tocco delicato dei pesciolini per fare muovere o immergere l’estremità rossa della penna.
A questo punto con un rapido colpetto si allamava il pesciolino e si cominciava la raccolta per una bella frittura. Si catturavano alborelle, cavedanelli, vaironi, lasche in genere al di sotto dei 10 cm. di taglia.
Per dire di quanto fosse facile a quei tempi, anche per un bimbo, provvedere a un pasto, mi veniva data l’indicazione di non superare il numero di 80 pesciolini!
Così si raccomandava la nonna che li eviscerava e infarinava. Tanti sarebbero bastati a nutrire per bene le quattro persone che allora componevano la famiglia.