I Binari della mia vita – Il “Respiro della Terra”
Tanti anni fa lavoravo in un’enorme frana che era attraversata da una galleria ferroviaria: era una delle mie prime esperienze professionali e seguivo attentamente quanto mi diceva un attempato geologo che non ricordava più se il Devoniano veniva prima dell’Ordoviciano. Non che mi turbassi, ma fresco di studi ritenevo importanti quelle nozioni salvo poi diventare negli anni anch’io come lui. Posizionammo degli inclinometri e ogni settimana li controllavamo: dopo alcune volte ero stupito dai piccoli movimenti in quasi tutte le direzioni che registravano gli strumenti e ne domandai spiegazione al collega. Mi guardò con serietà e disse: «É il Respiro della Terra». Le maiuscole erano implicite nel tono. «Il Respiro della Terra» non aveva mai fatto capolino nelle seriose materie universitarie ma mi guardai bene dal sottovalutare quell’affermazione perché allora ero come una spugna e cercavo di assorbire ogni esperienza. In seguito, nel frequentare le gallerie in costruzione, ebbi modo nei sopralluoghi, quando non c’era nessuno in giro, di udire scricchiolii e, in certi casi a grande profondità, addirittura delle specie di miagolii. Il nostro lavoro era forse una ferita dolorosa per la montagna?
Pur avendo lavorato molti anni nella progettazione e costruzione di gallerie, ben poche volte ci sono entrato da solo perché le esigenze quasi sempre richiedevano la presenza di colleghi o c’erano i minatori a lavorare. Ci sono riuscito in qualche occasione durante le feste o le ferie e quel buco nero sembrava diverso dal solito. Prima di tutto il silenzio. Qualche stillicidio, una centina che si assestava, il rumore dei miei passi, il ronzio di uno strumento elettrico. Le luci erano dimezzate e nell’aria vi era odore di stantio e di cemento. Arrivato al fronte, cioè alla parete dove si scavava, mi fermavo a guardare quella roccia vergine non ancora sconvolta e trasformata dagli agenti atmosferici ben diversa da come è in superficie. Meditavo quindi sul tempo che ci governa, quello degli uomini e quello della Natura. Due abissi che si possono condensare in numero di anni oppure in milioni di anni; due scopi diversi entrambi sconosciuti, due esistenze per cui la nostra sarebbe Vita e quella della roccia no. Un assurdo dovuto solo al fatto che ci hanno insegnato, e ci sentiamo, al centro dell’Universo mentre tutto è al nostro servizio: per mangiarlo, per calpestarlo, per berlo, per divertirci, per guardarlo come una bellezza panoramica. Un improvviso miagolio della roccia che si muoveva mi portava al convincimento che tutto ciò non può essere vero, che il mondo minerale non è un “di cui”, che l’Universo è un tutt’uno con scadenze diverse ma rispetta le nostre stesse leggi.
Mio padre ed io entrammo nel cunicolo di Rio Rido. L’acqua scrosciava dai drenaggi e il rumore copriva le nostre voci. Quel giorno nessuno ci lavorava, anche le luci erano tutte spente e mi ero portato una pila. Giorgetto, U Ferrettin, U Mainà, come lo chiamavano a Isola o sui mercati dove andava per lavoro, seguiva da vicino la mia lenta camminata. Dopo 2 o 300 metri entrammo nella zona asciutta con l’aria ferma, più calda, che pesava sul cuore. Cominciai a parlare spiegandogli come i bergamaschi l’avevano costruito nel giro di pochi mesi sotto la galleria in esercizio. Infatti si sentivano i treni passare, un’eco soffuso, lontano, anche quello inquietante. Andammo sino in fondo e lì ci fermammo a toccare la roccia d’Antigorio, dura come la ghisa, signora nobile della geologia di Domodossola. Poi, lentamente, ci dirigemmo verso l’uscita sotto i getti d’acqua rinfrescanti. All’aperto il torrente Diveria scintillava al sole e neanche lontanamente assomigliava al nostro pigro Scrivia: onde spumeggianti, veloci e irregolari, passavano sui massi allontanandosi a valle. Risalimmo verso il cantiere sorridendo entrambi. Sul treno del ritorno chiesi a mio padre come aveva vissuto quella visita sotterranea. Solo oggi capisco quanto affetto racchiudeva quella frase
«G’aveiva puia ma con ti me sentiva segùu ».
Il mio mestiere era quello di veder nascere dei tunnel, prima sulla carta e poi nelle montagne. Le gallerie già esistenti non rientravano nei miei compiti e sinceramente non mi interessavano: mi consideravo un pediatra e non un gerontologo. Però nell’estate del 1997 dovetti sostituire un collega per dei lavori notturni nella galleria “Borlasca”: essa è lunga 4.049 metri ed i sondaggi interessavano la zona dell’ingresso verso Rigoroso. Una sera salii sul treno materiale nel varco del muro che c’è a Creverina e mi feci portare sul luogo di indagine. Finiti i miei accertamenti salutai i tecnici e mi diressi a piedi verso Ronco, munito di torcia elettrica. Il rumore dei macchinari man mano diminuiva e mi trovai immerso nel buio e nel silenzio. Mi fermai a metà perché mi sembrava di essere al centro della Terra e sedetti sul marciapiede spegnendo la lampada: il buio assoluto è la sensazione di non avere corpo, di essere plasma che vaga nell’etere mentre il tempo si blocca e la mente non ubbidisce. Quanti anni hai? Sei davvero passato tra i giorni e le notti, i mesi gli anni? Quello stillicidio è lontano o vicino? A un certo punto senti il cuore che batte: intendo dire che senti il rumore del cuore che batte come un pendolo che non è ricaricabile. Ecco ogni battito è uno di meno, quanti ne hai a disposizione? L’angoscia ti prende, aumenta il ritmo e il respiro sembra non bastarti. La galleria è una violenza alla Terra? Non sei James Bond, l’adrenalina corre lungo il tuo braccio e accende la luce. Ti alzi e realizzi che sei nulla, ti credevi importante? No, non lo sei, fattene una ragione
* “Avevo paura ma con te mi sentivo sicuro”