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I binari della mia vita: incontri

USS KIDD

Nel 1985 frequentavo un corso a Gaeta. Alla domenica sera arrivavo a Formia più o meno alle 24 e prendevo un taxi per la città. Una volta riuscii a salire sull’ultimo in tutta fretta e, mentre partiva, vidi un ufficiale di Marina USA che era rimasto a piedi. Lo feci accomodare: nell’inglese maccheronico da cantiere che parlavo allora, riuscimmo a sostenere una piccola conversazione. Era di servizio sul cacciatorpediniere USS Kidd e mi invitò a visitarlo all’indomani sera. Si chiamava Thomas Doherty e girammo per la nave in lungo e in largo. Mi colpirono tre cose: il comandante che era in plancia seduto con le gambe su un tavolo, le numerose donne di turno quella sera e la fiducia, quasi bambinesca, degli yankee: avrei potuto essere una spia sovietica. Cenammo nella mensa deserta a quell’ora con bistecca al sangue, patatine e Coca-Cola perché il resto, secondo me, era immangiabile. Ci vedemmo altre due sere e con sgomento ai favolosi “spaghetti allo scoglio” osò aggiungere formaggio parmigiano e molto burro bevendoci birra. Guardai il cameriere che capì subito e disse: «Non si preoccupi, con altri marinai è anche peggio». Rimasi in contatto epistolare con lui alcuni anni nell’attesa che la nave facesse scalo a Genova e lui potesse mettere la mostarda nelle trenette al pesto del ristorante Zeffirino in Via XX Settembre

In una delle tante trasferte ebbi l’occasione di viaggiare, mi pare da Livorno o Grosseto a Roma, con Jerry Calà. Quando si sedette di fronte a me avevo l’idea che il cinema ci trasmette: caciarone, un po’ sopra le righe, finto tonto e così via. Lui leggeva il giornale e io leggevo un libro. Arrivò il controllore e lo riconobbe iniziando a parlargli del figlio che aveva velleità teatrali. Jerry rispose educato e con calma dando qualche consiglio (scontato) al suo interlocutore che aveva deciso di non mollarlo. Lui ammiccava e, educatamente, rispondeva a domande dirette. Ero più scocciato io della lunga interruzione che il noto attore. Finalmente il ferroviere se ne andò salutando più volte. Jerry non batté ciglio, non espresse con la mimica alcun disappunto e si rimise a leggere tranquillamente. Fu una lezione per me. Quando vedo i suoi film ricordo l’episodio e mentalmente mi congratulo con lui per la gentilezza e pazienza che dimostrò.

Dovete sapere che il mio amico Carlo, geologo anche lui, aveva un libro in cui erano elencati tutti i negozi d’Italia dove, a prezzi bassi, si trovavano gli oggetti più disparati. Un Outlet antesignano perché lui precedeva i tempi. Una volta venne a Genova e dovetti portarlo in Via Tortona, strada sconosciuta ai più, per comprare maglie di cachemire. Un’altra volta andò a Mantova con il Direttore Tecnico per acquistare scarpe di marca: il loro motteggio, la loro ironia vicendevole, nello scegliere e misurarle, colpì la commessa che disse: «Bene, vedo che siete contenti e affiatati, dove lavorate?» e loro: «In galleria». «Allora conoscete un sacco di artisti!». Tacquero per non deluderla…

I miei colleghi forse ricordano che nell’ufficio a Genova appesi i miei diplomi di “Assaggiatore di patata quarantina” e di “Cavaliere del raviolo e del Gavi”. Non avevo pensato che sarebbero diventati utili. In quegli anni in ITALFER venne introdotto il Sistema di Qualità ISO 9001 e le visite ispettive erano particolarmente temute da noi dirigenti. Venne il mio turno. Sapevo di non avere i documenti a posto e l’ansia si misurava a chili; i due responsabili della ditta esterna che faceva tali ispezioni entrarono e si sedettero davanti a me: sopra la mia testa c’erano i due quadri. Incuriositi mi chiesero spiegazioni e, sempre più interessati, finirono nella trappola psicologica della confidenza. Alla fine, forse mi fecero anche la “Ola” e tutti i colleghi si chiesero come fossi riuscito a salvarmi: mia madre diceva sempre che sono più fortunato che intelligente…

Arrivai al grattacielo nuovo delle Ferrovie a Porta Garibaldi per prendere possesso del mio ufficio: alla 1a Unità Speciale erano assegnati il 21° e il 22° piano. La piantina parlava chiaro, ero al 21°, numero che mi perseguitava dalla gioventù, maledettamente annunciatore di sciagure. Sono un razionale ed ero iscritto al CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) ma bisogna essere prudenti perché la fortuna è cieca però la iella ci vede benissimo. E qui non c’entrano marziani, miracoli e altri fenomeni paranormali, bensì una particolare forma di avversità nei tuoi confronti da parte del cosmo, una specie di etere individuato da scienziati locali dopo la scomparsa di Ercolano e Pompei. La dimostrazione è che pur vivendo su un cratere attivo, l’influsso di corna, scarabei, candele benedette e quant’altro, preserva i partenopei da una catastrofe. Mi diressi quindi con un senso di pudore verso l’ufficio del Capo per farmi spostare al 22°. Mi guardò per forse un minuto, stupito, immobile con la penna tra le dita. Finalmente aprì un cassetto e tirò fuori un cornetto rosso formato extra. Era napoletano: problema risolto.

Il professore arrivava in cantiere elegantissimo. Il suo fisico gli permetteva di indossare giacche inglesi di tweed dai colori opachi e intriganti, con scarpe robuste fatte a mano e, ovviamente, il farfallino. Era già avanti con gli anni però aveva pazienza con noi giovani che volevamo conoscere i segreti per costruire gallerie e non si tirava indietro alla miriade di domande che facevamo. Nel tunnel aveva tuta e stivali identici ai nostri con un qualcosa in più dovuto alla sua aurea scientifica e al suo portamento. In mensa, oggetto di discussione erano le sue esperienze in Italia e nel mondo: per ognuna delle centinaia di gallerie che aveva seguito, c’era un aneddoto, un ricordo, una curiosità. Un giorno ci incontrammo al Politecnico dove insegnava e subito vide, anzi adocchiò con curiosità, la mia giacca stile militare a quattro tasche e cappuccio. «Buon giorno caro dottor Pedemonte! Come va? Tutto bene? Ha proprio una bella casacca, complimenti. Può dirmi, se crede, dove lo ha presa?» e io: «In Galleria Mazzini a Genova». Lo stupore si dipinse sul suo viso e il sorriso si smorzò. Capii all’istante e lo tranquillizzai:

«Prof! non è una galleria in costruzione! È come dire Galleria Vittorio Emanuele a Milano, quella vicino alla Scala!».

Si rasserenò subito e nobilmente si prese in giro ogni volta che mi vedeva. Un grande uomo, un grande tecnico. Ho imparato tantissimo da lui e lo ringrazio anche da qui.

Sono stonato e di solfeggi non capisco nulla, eppure una volta ho suonato il violino. Frequentavo una specie di corso pomposamente chiamato Business Process Reengineering (BPR) in un agriturismo del Centro Italia dove una italo – svedese ci faceva rivedere la nostra organizzazione aziendale inframezzando momenti in cui dovevamo imparare a collaborare. Una mattina, nell’aula trovammo in terra un violino per ciascuno. Ci disse (alla tedesca): «Adesso uscirete di qui quando tutti insieme suonerete O’ sole mio». Risate e imbarazzi. Una bella e bionda musicista salì sulla pedana e in inglese cominciò a darci ordini. Io sudavo. Le prime note erano come latrati e si prospettava una seduta di 24 ore senza interruzioni. Invece dopo poco tempo la melodia affiorò, non eccelsa ma neanche tragica. L’insegnante sorrise e ci promosse: «Se si vuole raggiungere un obiettivo, la collaborazione può portare a qualunque risultato». Alcuni volontari, alla fine del corso, cantarono arie da opere liriche nel teatro di Modena affittato appositamente. Assistetti con mia moglie e mi emozionai.

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