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Montespineto al tempo dei romani

La curiosa descrizione che segue è tratta dal romanzo ‘Il tempio e la spada’ di Rosario Magrì.
Esistono due diverse edizioni dell’interessante romanzo di Magrì. Oltre alla prima edizione integrale (giugno 1961) è stata data alle stampe una edizione ridotta e riadattata per i ragazzi dal titolo “Tredicesima Legione’.

Il monte delle Spine è una collina brulla, piantata a picco sullo Scrivia, di fronte a Libarna. Sulla sua cima gli Isiaci della città avevano eretto un tempio dedicato a Iside Regina. Lì abitava Zatchlas; di lì era sceso a ghermire mia madre come un falco cala sulla sua preda.

[…] Per andare da Libarna al tempio di Iside occorre naturalmente attraversare lo Scrivia. Di solito si percorre il grande ponte di pietra su cui la via Postumia scavalca il fiume, mezzo miglio a settentrione di Libarna, dove la collina si protende come una diga a restringerne il corso.

Ma lo Scrivia non è che un torrente nel suo grande letto sassoso e, tranne che in inverno, le sue acque son così basse che un fanciullo potrebbe guadarlo senza bagnarsi le ginocchia, Un tempo grosse mura cingevano la città dalla parte del fiume, servendo anche da argine contro le piene più impetuose. Da molti anni, però, esse sono diventate inutili, e i contadini coltivavano la terra che la confluenza del Borba nello Scrivia accumula davanti alle loro rovine. Non mi fu difficile calarmi da quei massi sbrecciati e, correndo lungo i sentieri fra gli orti, raggiungere il fiume.
Era la quinta ora, il sole di maggio ardeva sui sassi, ma io non sentivo nè il caldo nè la stanchezza. Alzando gli occhi verso il monte vidi i muri bianchi del tempio splendere alla sua sommità.
Sputai nell’acqua con odio pregando gli dèi che si portassero via Zatchlas come la corrente faceva con la mia saliva. Giunto sull’altra sponda, presi a salire di corsa il sentiero che porta alla cima.
Vi giunsi quasi senza accorgermene, come se una raffica mi avesse spinto davanti a sé. Non avevo nessun piano preciso: desideravo solo una rivincita che risolvesse tutti i miei problemi mettendomi finalmente in pace con me stesso. Per ottenerla ero pronto a percuotere, a ferire o a fare qualunque altra terribile cosa senza preoccuparmi delle conseguenze.

La vetta del monte era spianata e sistemata a formare un vasto piazzale lastricato, cinto su due lati da un basso portico sostenuto da grossi pilastri di mattoni i cui capitelli di pietra erano ornati da figurazioni di stile egiziano. Sul terzo lato s’innalzava il tempio di Iside, a cui si accedeva per una scalinata di sette gradini. La porta, fiancheggiata da due nicchie contenenti sfingi di pietra, era chiusa, il cortile appariva deserto e nessuna voce usciva dalle stanze che s’aprivano sotto il portico. Il quarto lato, quello per il quale si accedeva al piazzale, era interrotto nel suo mezzo da una cappella chiusa da una cancellata di ferro. L’interno di questa era rivestito di marmo giallo, mentre la volta era di un color rosso vivo. Li dentro Osiride, tozzo e barbuto, con la cesta sacra sul capo e lo sguardo torvo, attendeva nell’immobilità del marmo nero l’omaggio dei fedeli. Nella parete alla destra del dio un quadro raffigurava suo figlio Arpòcrate, grasso e nudo, col corno dell’abbondanza in mano. Fissava stupidamente Anubi, l’orribile Cinocèfalo dalla testa di sciacallo sul corpo umano, che sulla parete di fronte guidava con un ramo di palma le anime dei defunti al giudizio di Osiride. Sul pavimento intarsiato a mosaico bianco e nero v’erano ancora le offerte dei fedeli che avevano partecipato alla cerimonia del mattino. Vidi molti sesterzi e denari d’argento e perfino un anello d’oro. Il mio furore crebbe. Volevo entrare per distruggere quel nido di vipere, sfogare il mio rancore su quelle immagini oscene, ma invano scossi il pesante cancello. Afferrai allora un sasso e stavo per lanciarlo attraverso le sbarre quando qualcuno mi afferrò il braccio.