Libarnaterritorio

L’acquedotto romano di Libarna parte prima

Il contesto – La storia archeologica

L’arrivo dei Romani in Valle Scrivia è caratterizzato dalla trasformazione viaria, urbanistica, tecnica e tecnologica, che costituì una cesura con il passato e con una parte del futuro, quando, a partire dal IV secolo, si sarebbe tornati a forme di vita meno organizzate.

La storia di Libarna è ampiamente nota e per gli approfondimenti rimandiamo al libro curato da Silvana Finocchi su Libarna: segnaliamo solo che la città ebbe circa 6.000 abitanti – più la popolazione dei sobborghi – ma non raggiunse mai i 10.000; l’acquedotto è probabilmente stato realizzato sotto l’Imperatore Claudio (42 d.C.), che fece costruire anche quelli dell’Aqua Claudia e dell’Anio Novus, a Roma. Una fistula (tubo usato dai Romani per la conduttura delle acque), inglobata in una spalletta dell’acquedotto in località Campora, ne testimonia l’antichità.

A partire dai primi anni del XIX secolo, quando le sue vestigia erano maggiormente visibili, tutti gli storici poterono constatare il suo percorso in alcuni punti dal Rio Borlasca, fino a Libarna. In genere queste opere terminavano nelle vicinanze delle mura e non nel centro della città, perché lo sbocco dell’acqua doveva essere come minimo a otto metri sopra il terreno con un castellum aquae, da cui si dipartivano i tubi in pressione – realizzati in piombo oppure in cotto – che alimentavano la rete cittadina.

L’acqua era un bene considerato di proprietà̀ dello Stato e come tale destinato, in primo luogo, ad un utilizzo pubblico negli impianti termali e nelle fontane; questi apprestamenti erano messi tradizionalmente a disposizione dell’intera cittadinanza, che ne poteva fruire liberamente a titolo gratuito. In Età̀ Repubblicana, solamente l’acqua in eccedenza sulle necessità pubbliche veniva destinata all’impiego da parte dei privati. Era usuale che unicamente le abitazioni appartenenti agli esponenti dei ceti più ricchi fossero dotate di impianti di acqua corrente: i cittadini comuni si rifornivano invece alle fontane pubbliche, ai pozzi o ai canali. Con la Tarda Antichità tutto venne rimesso in discussione per le condizioni sociali ben diverse e ci fu un ritorno a tecniche più semplici e spartane.

I Romani iniziarono l’acquedotto di cui trattiamo dal Rio Borlasca, anche se sulla sinistra della Scrivia, a partire da Libarna, ci sono altri due ruscelli con una portata ragguardevole: il Lavandaia e l’Acquafredda. Fu giocoforza scegliere il Rio Borlasca come presa dell’acquedotto per poter avere una pendenza accettabile e forse usufruire contemporaneamente degli altri due. Da lì, verso sud, solo il Rio San Rocco a Creverina (Isola del Cantone) poteva garantire un approvvigionamento sicuro, ma occorrevano ancora una decina di chilometri per arrivarci.

Occorre chiedersi se nei secoli successivi l’acquedotto sia stato utilizzato (forse in parte), ricostruito in alcuni punti o sostituito con un altro. Di questo ancora non sappiamo nulla.

La costruzione di gallerie in epoca romana

I resti di galleria – circa 10 metri – che vediamo in località Ronchetto, tra il Rio Lavandaia e il Rio della Montà, nei pressi di Case La Costa, hanno una dimensione interna di circa 0,5 metri per 0,7: oggi l’accesso è consentito solo strisciando. In questa galleria la fase di scavo beneficiava di dimensioni maggiori – forse 1,3 x 1,5 metri – per l’assenza del rivestimento, spesso da 30 a 40 cm; era una sezione angusta, ma poteva permettere il lavoro a un uomo, anche se in modo particolarmente disagiato; qui l’ammasso roccioso era tenero, ma con banchi di arenaria estremamente tenaci, e quasi sicuramente veniva scavato con martello e scalpello. L’operaio doveva passare il materiale di risulta a qualcun altro dietro di lui e così via, mentre tutto ciò era ostacolato dal fumo delle lanterne.

È probabile che questo ammasso roccioso consentì di proseguire l’avanzamento abbastanza a lungo per sostenere lo scavo e posare in opera i ciottoli di dimensioni all’incirca da 20 fino 40 cm. Se la nostra galleria misurava poche decine di metri, possiamo ipotizzare che sia stata scavata interamente senza rivestimento e poi lo si sia posato nel senso contrario a quello scavato per usufruire delle dimensioni maggiori. Le centine in legno dovevano sostenere il rivestimento finchè la malta non si fosse indurita; il che richiedeva, a seconda del tipo di materiale, anche 20 giorni.

L’impermeabilizzazione della galleria al Ronchetto non era particolarmente rifinita e aumentava quindi la resistenza al moto dell’acqua. L’uso dell’acquedotto si prolungò per un tempo che permise la formazione di concrezioni calcaree, la cui velocità di crescita è difficile calcolare. Tale parametro risente ovviamente del tipo di acqua più o meno calcarea, della sua stagnazione, della temperatura e così via, ma lo spessore del manto concrezionale può dare un’indicazione del tempo in cui è stato utilizzato l’acquedotto. Ad esempio, a Cà del Bianco lo spessore della concrezione calcarea è di 30 mm. Il velo di concrezione calcarea era anche un ottimo impermeabilizzante delle pareti. Con la crisi del III secolo probabilmente l’acquedotto non ebbe più manutenzione e cessò la sua funzione, se non per i tratti più vicini a Libarna in cui venivano convogliate acque dai rii minori.

Il tracciato secondo altri studiosi

Giuseppe Antonio Bottazzi, 1815

Il primo approccio allo studio di questa importante opera è la consultazione del volume di Giuseppe Antonio Bottazzi risalente al 1815:

«[…] L’acquedotto è construito a calcestruzzo, cioè un miscuglio di selce, poca sabbia, marmo e granito pesto mescolato di pozzolana, e di un’abbondante dose di calce. Questo cemento è divenuto talmente compatto e solido, che non si può rompere se non a forza di polvere da fuoco. Le vestigia dell’acquedotto cominciano propriamente dal rivo di Pietra Bissara, ed in distanza di cento cinquanta metri dal medesimo luogo; osservasi ancora un bel masso carbonatato amorfo stallatitico, formato dallo scolo delle acque sulla calcare […] Lungi duecento metri incirca da Pietra Bissara, per togliere l’ostacolo della natura i Romani hanno tagliato un pezzo di monte calcareo, e porzione di pietra gregaria, forando con enorme lavoro e spesa il monte stesso a certa distanza per continuare l’acquedotto. Lo scavo fatto in questa porzione di montagna è dell’altezza di un metro, e della larghezza di 73 centimetri. Prosiegue quindi l’acquedotto costruito a calcestruzzo la tortuosità delle montagne, secondando cosi i tortuosi giri della natura, sempre alla metà del declivio. Ove poi i rivi e torrenti, che precipitosi discendono dalle montagne impedivano di formarvi l’acquedotto i Romani vi fabbricarono dei ponti, ossia, archi più o meno lunghi, per sostenerne la continuazione. Secondando così la tortuosità dei monti, come dissi, l’acquedotto discendeva lungo il colle di Rivodoloso, or Rigoroso, e proseguendo pel colle o monte Aventino in Pompeiano, vicino ad Arquata, sulla pianura verso il Sud-ovest, e propriamente verso Libeccio entrava in Libarna. La direzione adunque dell’acquedotto è dal Sirocco verso Pietra Bissara, voltandosi poi verso il Sud-ovest di Libarna, formando una lunghezza, seguendo la maggior o minor tortuosità de’ monti, di circa sette leghe dalla sua origine: l’altezza, e larghezza esterna dell’acquedotto è di un metro e dieci centimetri, la larghezza poi del interno è di 42 centimetri, e l’altezza quasi un metro […] Non posso comprendere se l’acquedotto al tempo de’ Romani fosse sotterraneo, ovvero scoperto come ora si vede: in tal caso dimostrerebbe che il piano della città siasi di molto abbassato; pensiamo però che tale acquedotto fosse alquanto superiore al livello del piano orizzontale della città, affinché si potesse con maggior comodità derivar l’acqua da tutte le parti. Ma questo non è il solo acquedotto che avesse Libarna, poiché altri frammenti ravvisai provenienti dai monti verso il Sud, ed anche a Libeccio […]».

Specifichiamo che la malta utilizzata non poteva contenere «un miscuglio di selce, poca sabbia, marmo e granito pesto mescolato di pozzolana, e di un’abbondante dose di calce»: selce, granito e pozzolana non sono reperibili in un raggio chilometrico che ne possa garantire l’economicità del trasporto. Importante invece è la parte da noi sottolineata: l’acquedotto seguiva il pendio della montagna ed era su muratura nell’attraversare i ruscelli. Nello stesso volume, Giuseppe Antonio Bottazzi ribadisce che nella Valle di Predella (sic) passava ai piedi del piccolo colle. Egli non parla di lunghi tratti sospesi su ponte canale in mezzo ai campi, se non all’interno di Libarna o poco distante.

Condotta idraulica (Archivio LibarnaArteventi)

Smith ci conferma poi che la costruzione e la manutenzione delle condotte in superficie o in galleria presentava meno problemi: le arcate erano soggette nel tempo a fenditure, forse per assestamenti o per eccessivo carico, richiedendo la chiusura del servizio.

Ulteriore testimonianza è quella di Giulio Cordero di San Quintino nel 1825, dove non si cita un manufatto ad altezza superiore a quella del suolo:

«[…] L’acquedotto di Libarna raccoglieva le sue acque sei miglia (9,6 km. N.d.R.) di là distante nel rivo che va a cadere nella Scrivia vicino a Pietra-Bisciara; e veniva alla città, fiancheggiando il monte, sulla sinistra sponda del detto fiume, dove non pochi avanzi se ne vedono tuttora, lungo la moderna strada di Genova. È degna d’attenzione la sua costruzione di cemento a calcestruzzo senza rena; è largo internamente vent’otto centimetri, ed alto quarantacinque. Il suo corso trovandosi, in un tal punto poco distante da Pietra-Bisciara, arrestato da un grosso macigno di quella pietra varieggiata, che ha dato probabilmente il nome al villaggio predetto, vi fu praticato un foro o galleria, le dimensioni della quale sono, presso a poco, le seguenti: in lunghezza metri diciotto, in larghezza centimetri ottanta, in altezza due metri. II signor Canonico Bottazzi nelle più volte citate sue osservazioni asserisce di aver veduto dentro il perimetro della città alcune porzioni di un acquedotto, il quale era largo internamente poco meno di un piede piemontese (centim. 55). Ed io parlai con chi vide estrarre da quel suolo medesimo alcuni tubi di piombo di capacità non ordinaria […]».

Altra indicazione sul percorso viene da Gaetano Poggi:

«[…] L’acquedotto […] affiora lungo la via che conduce alla Cascina di S. Giovanni – a Rigoroso si ritrova in Chiuserè, sulla via di La Costa, al Molino sotto la casa Repetto – ricomparisce all’angolo del Belvedere sotto e sopra la strada […]». L’affermazione sotto e sopra la strada può essere interpretata così: prima del Belvedere era interrato, dopo scorreva sulla parete al di sopra della Regia Strada. Il mulino era sulla sinistra idrografica del Rio, vicino alla SS 35 dei Giovi ma non sappiamo dove era la casa Repetto. Il Goggi non descrive il manufatto né cita archi o pile.

Ecco cosa scrisse Giorgio Monaco nel 1936:

«[…] La presa d’acqua doveva essere press’a poco nel punto in cui, uscendo dalla conca di origine, il Rio si incanala nella breve e stretta valletta terminale. L’acqua veniva convogliata in una copertura artificiale, forse a partire dalla località Bric Boschetto, e sulla sponda destra del Rio.

A.- Avanzo di imbocco dello speco (canale). Si nota in luogo detto La Cava e consiste in un arco a piedritti di mattone e arcata in pietra. Notevole parte del manufatto deve stare ancora sotterra […]

B.- Imbocco diroccato. Poco più a valle dell’imbocco A ed alla stessa altezza, ho riscontrato un altro imbocco diroccato, sempre dello stesso materiale di mattoni e pietra e con tracce di opera a sacco.

D.- Galleria. Alla fine del Rio, per mantenersi a un livello pressochè uguale, doveva il condotto passare su archi il Rio Borlasca onde portarsi sull’altra sponda e proseguire lungo la sponda sinistra della Scrivia presso Libarna. Difatti poco più a valle dello sbocco del Rio Borlasca e sulla sinistra dello Scrivia esisteva fino a pochi anni or sono una galleria scavata nella roccia per evitare lo sperone del Monte Curlo. Questa galleria precisamente trovavasi poco al disopra (circa 10 m.) dall’attuale strada nazionale (dal punto in cui si trova il pilone commemorativo dell’apertura napoleonica della strada) e dell’imbocco sud dell’attuale galleria ferroviaria di Pietrabissara. [Essa era] lunga 18 metri […] “duecento metri a valle di Pietrabissara” […]

Da questa galleria verso Rigoroso, difatti, come ancora vide il De Malzen, l’acquedotto seguiva le sinuosità della montagna, passando sopra archi elevati al disopra di ruscelli discendenti dai monti […]

G-H-I-L. – Ruderi dell’acquedotto presso Libarna… Questi quattro resti erano addossati quasi alla collina e ci danno quindi la prova che l’acquedotto costeggiava le colline a sinistra della Scrivia, passando al disopra di Rigoroso e di Arquata […]».

Da Pietrabissara in avanti le sue osservazioni riguardano un canale come quelli odierni che mirano alla semplicità in funzione dell’economia: siamo troppo influenzati da visioni pittoriche che costituiscono invece casi limite (come l’attraversamento del Bormida a Acqui Terme).

Sauro Moretti ed Edoardo Morgavi, nel 1998, hanno pubblicato uno studio accurato sul percorso che riepiloga i ritrovamenti del passato, localizza su una carta 1:10.000 i resti ancora visibili o indagati con scavi archeologici e ne implementa la descrizione con interviste sul posto.

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