EnciclopediaOratorio dei Bianchi

Cikèina

di Gian Paolo Vigo

stendardo funebre di scuola lombarda del sec. XIX

At è gnùa (opp. at è tucò) pròpiu ‘na bèla cikéina adosu, esclamavano i nostri anziani nell’incontrare qualcuno che era malato o che aveva seri problemi esistenziali, sciagure (visto che questa espressione si può usare anche allegoricamente). Alludevano all’atteggiamento sofferente della vittima e, indirettamente, all’evoluzione negativa del morbo ossia alla morte poiché alla notizia di un decesso anche alla domanda cose u gh è gnìuu? la risposta era l’esclamazione di cui sopra. Ma, fatalisti com’erano, chiudevano il ragionamento con la ricetta di sempre: l’éa à so ùa… oppure, alla domanda ma id cs’e klè mortu? rispondevano cinicamente diagnosticando l’esito di sempre ugh è gnüu ‘n culpu! (chissà che malattia è il “culpu”, forse l’ictus o colpo apoplettico; in sostanza era un sinonimo di morte repentina, che si è portata via la sua vittima “in un colpo”).
Il nome “Cikéina” è di derivazione ligure dove viene chiamata Cicchetta (che deriva da Cicu, diminutivo di Francesco) ed è il diminutivo-vezzeggiativo storpiato di Francesca (Franceschetta). “Ciccare” è anche la storpiatura del verbo “masticare tabacco” (dove le “cicche” sono delle piccole prese di tabacco sfuso) che rimanda ad una persona smunta che cerca di smorzare la fame con l’effetto di rilassatezza, diminuzione dell’appetito, stimolo neurovegetativo e dunque stato vigile, dati dalla nicotina. Nelle zone a noi vicine di influenza lombarda è detta Caterina (Catàinéin) o Camilla, mentre invece con il nome Carolina nel genovesato e dunque fino a Novi si intendeva il carro funebre, come peraltro parimenti chiamato pure in altre regioni d’Italia centrale, pare dal nome della prima defunta che vi fu posta quando si iniziò ad usare questo tipo di veicolo (il che fa pensare che anche gli altri appellativi sopra menzionati richiamino in qualche maniera le prime inconsapevoli protagoniste dei diversi “nomi-prodotto”).
Per estensione “Cikéina” divenne il nome dello stendardo funebre che usavano le nostre confraternite negli accompagnamenti funebri. Su questo è infatti raffigurata la morte allegoricamente rappresentata da uno scheletro apparentemente “sorridente” (meglio sarebbe dire che esprime un sorriso sardonico, commiserevole, ma anche cinico visto che non si arresta certo dal fare il suo compito), che impugna una falce (che livella tutta la vegetazione cresciuta, allegoria del livellamento delle classi sociali, delle condizioni di vita, tutte uguali di fronte all’inesorabilità del decesso) ed è attorniato, a seconda dell’artista che lo realizza o dei gusti del committente, dalla clessidra alata, allegoria del tempo che vola via, e da torce capovolte ossia che stanno per essere spente (allegoria dell’estinzione). Cosicché è inevitabile pure l’accostamento alla “comare secca” di romanesca memoria… del resto la morte-scheletro non è paffuta e peraltro c’è chi muore di fame per deperimento diventando dunque magro come scheletro… volete mica smentire, poi, l’antico rimedio riassumibile nel detto “mangia che ti passa”? (se non si mangia non passa e quindi si muore, è ovvio, no?).
Questo stendardo c’è ancora, è conservato nell’Oratorio dei “bianchi” ed è una tela dipinta ad olio di circa 1 metro di larghezza per 1 metro e mezzo di altezza. E’ una doppia tela, dipinta davanti e dietro. Su un verso “Cikéina” però non brandisce la falce ma un cartiglio che da lontano sembra una falce stilizzata, ma in realtà è una serie di frasi bibliche che fanno riferimento alla risurrezione. Detto soggetto è molto inusuale se si osservano oggetti simili presenti altrove, ma bisogna dire anzi affermare senza disquisizioni, che è vero che i nostri predecessori avevano il sacro timore/rispetto della morte ma proprio per scongiurare quella eterna elevavano copiosi suffragi e cercavano di proiettarla verso la dimensione ultraterrena. Era un modo per dare un poco di speranza ai superstiti. Se Cristo non fosse risorto, la fede dei cristiani sarebbe inutile, perché la speranza lascerebbe il posto alla disperazione, l’attesa alla rassegnazione, la gioia alla tristezza, la vittoria alla sconfitta.
Quanto all’impiego di stoffa nera per realizzarlo, questa non va vista come una tinta lugubre, ma anzi quale colore-simbolo della terra (scura perché fertile) da cui ha principio la vita, alla quale torna con la morte. Quindi il nero non va inteso come indicatore di lutto, non è questo il suo significato originario o comunque principale. Si noti che i paramenti neri hanno una particolarità speciale. Sono (e devono essere) sempre ricamati o intessuti di argento o d’oro, proprio per ragioni simboliche. Stanno a dire, con il linguaggio del colore, che tutto sembra nero, come la morte, la fine, la mancanza di vita, ma sopra il nero si nota la luce (oro e argento) che viene dalla speranza e certezza della fede nel Signore Risorto: è Lui la luce che illumina e risalta sullo sfondo oscuro della situazione di lutto e distacco considerata. At è gnùa (opp. at è tucò) pròpiu ‘na bèla cikéina adosu, esclamavano i nostri anziani nell’incontrare qualcuno che era malato o che aveva seri problemi esistenziali, sciagure (visto che questa espressione si può usare anche allegoricamente). Alludevano all’atteggiamento sofferente della vittima e, indirettamente, all’evoluzione negativa del morbo ossia alla morte poiché alla notizia di un decesso anche alla domanda cose u gh è gnìuu? la risposta era l’esclamazione di cui sopra. Ma, fatalisti com’erano, chiudevano il ragionamento con la ricetta di sempre: l’éa à so ùa… oppure, alla domanda ma id cs’e klè mortu? rispondevano cinicamente diagnosticando l’esito di sempre ugh è gnüu ‘n culpu! (chissà che malattia è il “culpu”, forse l’ictus o colpo apoplettico; in sostanza era un sinonimo di morte repentina, che si è portata via la sua vittima “in un colpo”).
Il nome “Cikéina” è di derivazione ligure dove viene chiamata Cicchetta (che deriva da Cicu, diminutivo di Francesco) ed è il diminutivo-vezzeggiativo storpiato di Francesca (Franceschetta). “Ciccare” è anche la storpiatura del verbo “masticare tabacco” (dove le “cicche” sono delle piccole prese di tabacco sfuso) che rimanda ad una persona smunta che cerca di smorzare la fame con l’effetto di rilassatezza, diminuzione dell’appetito, stimolo neurovegetativo e dunque stato vigile, dati dalla nicotina. Nelle zone a noi vicine di influenza lombarda è detta Caterina (Catàinéin) o Camilla, mentre invece con il nome Carolina nel genovesato e dunque fino a Novi si intendeva il carro funebre, come peraltro parimenti chiamato pure in altre regioni d’Italia centrale, pare dal nome della prima defunta che vi fu posta quando si iniziò ad usare questo tipo di veicolo (il che fa pensare che anche gli altri appellativi sopra menzionati richiamino in qualche maniera le prime inconsapevoli protagoniste dei diversi “nomi-prodotto”).
Per estensione “Cikéina” divenne il nome dello stendardo funebre che usavano le nostre confraternite negli accompagnamenti funebri. Su questo è infatti raffigurata la morte allegoricamente rappresentata da uno scheletro apparentemente “sorridente” (meglio sarebbe dire che esprime un sorriso sardonico, commiserevole, ma anche cinico visto che non si arresta certo dal fare il suo compito), che impugna una falce (che livella tutta la vegetazione cresciuta, allegoria del livellamento delle classi sociali, delle condizioni di vita, tutte uguali di fronte all’inesorabilità del decesso) ed è attorniato, a seconda dell’artista che lo realizza o dei gusti del committente, dalla clessidra alata, allegoria del tempo che vola via, e da torce capovolte ossia che stanno per essere spente (allegoria dell’estinzione). Cosicché è inevitabile pure l’accostamento alla “comare secca” di romanesca memoria… del resto la morte-scheletro non è paffuta e peraltro c’è chi muore di fame per deperimento diventando dunque magro come scheletro… volete mica smentire, poi, l’antico rimedio riassumibile nel detto “mangia che ti passa”? (se non si mangia non passa e quindi si muore, è ovvio, no?).
Questo stendardo c’è ancora, è conservato nell’Oratorio dei “bianchi” ed è una tela dipinta ad olio di circa 1 metro di larghezza per 1 metro e mezzo di altezza. E’ una doppia tela, dipinta davanti e dietro. Su un verso “Cikéina” però non brandisce la falce ma un cartiglio che da lontano sembra una falce stilizzata, ma in realtà è una serie di frasi bibliche che fanno riferimento alla risurrezione. Detto soggetto è molto inusuale se si osservano oggetti simili presenti altrove, ma bisogna dire anzi affermare senza disquisizioni, che è vero che i nostri predecessori avevano il sacro timore/rispetto della morte ma proprio per scongiurare quella eterna elevavano copiosi suffragi e cercavano di proiettarla verso la dimensione ultraterrena. Era un modo per dare un poco di speranza ai superstiti. Se Cristo non fosse risorto, la fede dei cristiani sarebbe inutile, perché la speranza lascerebbe il posto alla disperazione, l’attesa alla rassegnazione, la gioia alla tristezza, la vittoria alla sconfitta.
Quanto all’impiego di stoffa nera per realizzarlo, questa non va vista come una tinta lugubre, ma anzi quale colore-simbolo della terra (scura perché fertile) da cui ha principio la vita, alla quale torna con la morte. Quindi il nero non va inteso come indicatore di lutto, non è questo il suo significato originario o comunque principale. Si noti che i paramenti neri hanno una particolarità speciale. Sono (e devono essere) sempre ricamati o intessuti di argento o d’oro, proprio per ragioni simboliche. Stanno a dire, con il linguaggio del colore, che tutto sembra nero, come la morte, la fine, la mancanza di vita, ma sopra il nero si nota la luce (oro e argento) che viene dalla speranza e certezza della fede nel Signore Risorto: è Lui la luce che illumina e risalta sullo sfondo oscuro della situazione di lutto e distacco considerata.

Cikèina. Saperne di più

Riccardo Lera

"Io nella vita ho fatto tutto, o meglio un poco di tutto" (Uomo e galantuomo di Eduardo De Filippo) Pediatra, scrittore per diletto, dal 2002 al 2012 assessore alla cultura di Serravalle Scrivia; ex scadente giocatore, poi allenatore e ora presidente del Basket Club Serravalle.

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